giovedì 19 gennaio 2012

Museo Fonderia Napoleonica MILANO



Museo Fonderia Napoleonica
MILANO 
Via Thaon di Revel 21 
Bus: 52, 70, 82, 90, 91, 92
Tram: 3, 7
Metro: MM 3 Zara
Segreteria: 
tel. 340 8821198, fax. 02 27001933




Allestito nel grande complesso di archeologia industriale che anima il quartiere Isola-Garibaldi. Il museo conserva l'atmosfera suggestiva degli antichi ambienti di lavoro, accuratamente restaurati della storica fonderia della Ditta F.lli Barigozzi. La collezione conserva documenti, fotografie, strumenti e attrezzature legati all’attività fusoria che qui la ditta Barigozzi svolse per oltre un secolo.

La famiglia Barigozzi, che già vantava una lunga tradizione nell’arte fusoria, intorno alla metà del XIX secolo trasferì in questa sede la propria attività, facendone una delle fonderie in bronzo più rinomate dell’epoca, specializzata in produzione di campane e fusioni artistiche.
Il museo si proporne di conservare la memoria di questo antico mestiere, invitando il pubblico a visitare gli ambienti di lavoro della fonderia e a conoscere il complesso processo di realizzazione delle campane, del quale è possibile ripercorrere idealmente le diverse fasi, dalla creazione della sagoma fino al momento della fusione.

martedì 17 gennaio 2012

Museo Fonderia Napoleonica - Milano


Fonderia Napoleonica Eugenia

www.fonderianapoleonica.it/
Luogo dall'atmosfera unica e dalle origini antiche, legate alla storia del quartiere Isola e del santuario di Santa Maria alla Fontana. La Fonderia ospita un museo ...
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Via Genova Giovanni Thaon Di Revel, 21  20159 Milano
02 6687738

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lunedì 16 gennaio 2012

Alla scoperta dell'Officina ferrarese

Alla scoperta dell'Officina ferrarese

INCISIONI RUPESTRI

Rock Drawings in Valcamonica

Brief Description

Valcamonica, situated in the Lombardy plain, has one of the world's greatest collections of prehistoric petroglyphs – more than 140,000 symbols and figures carved in the rock over a period of 8,000 years and depicting themes connected with agriculture, navigation, war and magic.

venerdì 13 gennaio 2012

LA VIA DELL'AMBRA

Dal Baltico al Delta del Po.


Prefazione
Eridano era il nome con cui i Greci designavano il Po.  Tale identificazione non è però un fatto così semplice come si potrebbe pensare, si tratta invece di un'acquisizione storica.  
L'Eridano era in origine un fiume leggendario, sulla cui localizzazione si sono variamente pronunciati gli antichi.  Questo libro è appunto dedicato alle fasi attraverso le quali si giunse ad identificare il fiume leggendario con il Po e a localizzare nel Polesine lo scenario dei miti di Fetonte, delle isole Elettridi, delle sorelle di Meleagro, di Dedalo e Icaro, di Eracle reduce dal paese degli Iperborei.  Un altro filo conduttore del libro è costituito dall'ambra, preziosa sostanza che si credeva fosse trasportata dai flutti del fiume Eridano.  La ricerca affronterà alcuni aspetti dei rapporti economici fra l'Italia e la Grecia, da una parte, e fra queste due aree e l'Europa centrale, dall'altra.
L'ambito cronologico trattato va dalla fine del II millennio a.C. all'epoca medio-repubblicana; entro tale ambito saranno selezionati alcuni problemi storici, letterari ed archeologici particolarmente interessanti per la comprensione dei due principali mosaici che costituiscono la nostra documentazione, quello letterario e quello archeologico.
Ormai potrà forse sembrare strano che un fiume inquinato come il Po possa essere stato il fluviorum rex di Virgilio, e possa essere stato concepito come un fiume cristallino che trasportava gocce d'ambra nelle sue acque fino alle isole Elettridi, site alla sua foce.  I popoli antichi della Padana rispettavano il dio fluviale e dalle sue acque ebbero infiniti benefici, mentre è naturale che il suo attuale degrado non procuri che danno.
Il presente volume esce in questa veste, nella serie di Storia Antica del Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche dell'Università di Trento, in seguito a vecchi accordi editoriali anche se attualmente il Dipartimento sta dando vita ad una nuova collana pluridisciplinare.
Ringrazio vivamente tutti coloro che hanno facilitato ad aiutato il mio lavoro, e specialmente gli amici e colleghi Anton Bammer, Lorenzo Braccesi, Juliette de La Genière, Clara e Walter Trillmich, Lucia Vagnetti, Marin Zaninovic; inoltre ringrazio Fede Berti, direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Ferrara, Angelo Bottini, soprintendente archeologo della Basilicata, Gabriele Cateni, direttore del Museo Civico Guarnacci di Volterra, Pier Luigi Guzzo, sovrintendente archeologo della Puglia e Valeria Maraschini, direttrice presso la stessa Sovrintendenza, Giuliana Tocco, sovrintendente archeologo di Salerno, Ante Rendiçv Mioç±eviçv, direttore del Museo Nazionale di Zagabria, Lucia Sanesi, già direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Adria, Franca Maria Vanni e Luigi Tondo direttori presso la Soprintendenza Archeologica di Firenze, il dott. Girolamo Zampieri, Conservatore del Museo Civico Archeologico di Padova, le Direzioni del Museo Nazionale di Villa Giulia di Roma, del Museo Civico Archeologico di Bologna, della Walters Art Gallery di Baltimora, del Museum of Fine Arts di Boston, del British Museum di Londra, del Museo Nazionale Archeologico di Belgrado e del Metropolitan Museum di New York.  Le fotografie edite in questo libro sono state concesse grazie alla cortesia dei musei e delle soprintendenze qui citati.
Introduzione

Non esisteva nell'antichità una sostanza che fosse stimata degna di attenzione da parte dei poeti e dei mitografi come l'ambra: non l'oro, o lo stagno, o le pietre dure, e neppure le spezie.  Fu certamente il fatto di non conoscere esattamente l'origine dell'ambra che spinse i Greci a concepire leggende e a collegare fenomeni fisici o situazioni geografiche con l'origine della sostanza stessa.  Il mistero che la avvolgeva fece sì che i luoghi ove veniva trovata fossero situati in zone per definizione inaccessibili, ai confini della terra.  Tali confini non erano tanto l'estremo Nord, da dove realmente l'ambra proveniva, o l'estremo Oriente, quanto piuttosto l'estremo Occidente, l'“Esperia”.  Era il punto di vista dei Greci, ovviamente, che determinava tale scelta di una geografia occidentale, probabilmente perchè in età arcaica l'ambra giungeva, o giungeva anche, da Occidente, vale a dire dall'Italia, forse attraverso l'Adriatico.  
La mitologia greca consacrò un legame indissolubile fra l'ambra ed un fiume favoloso chiamato Eridano.  Quest'ultimo era il fiume dell'ambra, perchè lungo le sue rive - secondo il mito - si depositava la preziosa sostanza, che veniva poi trasportata dalle correnti profonde.  Alle foci del fiume c'erano le isole Elettridi, dove si poteva trovare l'ambra portata dall'Eridano.  Naturalmente nessun greco sapeva dove realmente fossero questo fiume e queste isole, poichè, per poter fantasticare in tal modo, bisognava che il mistero restasse; se poi le conoscenze geografiche dell'Occidente si ampliavano, bisognava che si spostasse altrove l'orizzonte geografico del mito.
Era tipico della mentalità dei Greci creare - anche contemporaneamente - due livelli di conoscenza: quello scientifico e quello mitologico.  Essi sapevano che l'ambra veniva dal Nord e che era originariamente resina degli alberi; e fu un greco, Pitea di Marsiglia, a scoprire che essa veniva precisamente dalle coste di un mare settentrionale; ma ciò non toglie che si potesse affiancare una conoscenza mitologica alla conoscenza scientifica.  Per un poeta la realtà che non è precisamente definita può essere caricata di significati e di valori nuovi, può essere "umanizzata" (l'ambra nasceva, secondo il mito, dalle lacrime delle sorelle di Fetonte).  Chiunque, in Grecia, se voleva, poteva assistere all'estrazione dell'oro dalle miniere, ma nessuno poteva vedere donde nasceva l'ambra.  Questo fatto stimolò la curiosità, fonte del sapere, dei Greci, che pervennero ad un duplice livello di conoscenza: da una parte il mito e dall'altra la scienza.  
Come si arrivò ad identificare l'Eridano del mito con il Po?  Un tale quesito meriterebbe almeno un libro per risposta.  Credo infatti che per poter rispondere bisognerebbe delineare una dimensione non greca, ma italica del mito, del commercio e della lavorazione dell'ambra; una dimensione specialmente padana.  Fu infatti la storia di un commercio e di un particolare artigianato che stimolò la fantasia dei poeti greci.  Nel V secolo si cominciò, per quanto ne sappiamo, a parlare dell'Eridano identificandolo con il Po e a localizzare nell'area polesana molte delle leggende legate all'origine dell'ambra.  In quell'epoca il Polesine e buona parte della Padania erano popolati da Etruschi e buona parte delle ambre lavorate del V secolo a noi note sono prodotti etruschi.  La comprensione del processo attraverso il quale l'Eridano divenne il Po non può dunque prescindere dallo studio degli Etruschi padani e del loro ruolo nel commercio e nella lavorazione dell'ambra.  
L'area padana, e specialmente il Polesine, ebbe un ruolo notevole nel processo di smistamento e di lavorazione della sostanza proveniente dalle rive del Baltico; e questo vale non solo per il V secolo, ma già per l'età del Bronzo finale, e per l'età arcaica.  È dunque una necessità quella di affrontare lo studio dei miti servendosi di dati storici, quali sono quelli forniti dall'indagine archeologica: dati storici in un senso molto particolare, poichè, se non disponiamo di testimonianze scritte, i dati di scavo possono essere letti storicamente solo con grande difficoltà.   Farne uso per comprendere la mitologia (o, viceversa, usare i miti per interpretare dei materiali archeologici) è un'operazione delicatissima, poichè investe due sfere di documentazione assai disomogenee fra loro.  La difficoltà del procedimento determina un certo margine di rischio, e pertanto impone prudenza nelle conclusioni.  Solo in un panorama complessivo dei fenomeni si possono delineare con una certa precisione le interferenze tra l'ambra come merce o come ornamento e l'ambra come elemento mitologico.  
La storia degli studi sull'ambra registra, fin dal secolo scorso, un interesse spiccato per le vie attraverso le quali la sostanza giungeva dal Baltico al Mediterraneo.  Tale problema, proprio perchè già molto discusso, sarà qui trattato non tanto per rintracciare una "via dell'ambra" (va detto che le cosiddette "vie dell'ambra" sono meglio rintracciabili per l'età romana che per quella preromana, alla quale è dedicata questa ricerca), quanto per cercare di comprendere il tipo di contatti fra culture diverse il quale permise l'approvvigionamento d'ambra in Italia e in Grecia.  Si valorizzerà soprattutto l'importanza degli scambi fra l'area italica e quella centro-europea (in particolare la Germania), che fungeva da mediatrice della materia prima fra Baltico e Mediterraneo.  
Negli ultimi decenni le analisi chimiche e soprattutto spettrofotometriche e gascromatografiche dei manufatti in ambra antichi hanno permesso di determinarne la provenienza e di confermare anche per l'epoca preromana quanto sapevamo per l'epoca imperiale, e cioè che gran parte dell'ambra lavorata nel bacino del Mediterraneo era di origine baltica, o peribaltica.  In questo campo si segnalano particolarmente gli studi di C.W.Beck e di G.Guerreschi.  D'altra parte, le ricerche dello Strong, della de La Genière e della Negroni Catacchio hanno di molto ampliato e precisato le nostre cognizioni sulle ambre lavorate e scolpite in ambito italico.  Il campo degli studi sulla mitologia dell'ambra fino all'ultimo dopoguerra ha registrato un interesse limitato: si va dalle complesse divagazioni del Knaack sul mito di Fetonte alla semplice raccolta di fonti del Waldmann e dello Spekke.  Solo recentemente gli studi del Diggle sul Fetonte di Euripide e del Braccesi sulle fonti di Ovidio circa le leggende dell'ambra hanno riaperto e riimpostato i molti problemi attraverso lo studio critico delle fonti.
Quello che manca è un quadro generale che studi organicamente e criticamente le leggende relative all'ambra e che metta a confronto la letteratura con la documentazione archeologica; inoltre manca una storia della scultura in ambra nei suoi rapporti con gli altri materiali preziosi usati dai Greci e dai popoli italici.  Si tratta dunque di inserire la storia della scultura in ambra nella storia dell'arte e delle cosiddette "arti minori".  Non si cercherà, per questo, di tracciare un quadro delle attestazioni di ambre in contesti archeologici, quanto piuttosto di valutare i dati archeologici come testimonianze di determinati interessi per questa sostanza presso le varie culture del bacino mediterraneo.  Chi acquisiva ambra e perchè: saranno questi i due quesiti che ci porremo.  A tale fine si useranno classificazioni empiriche, destinate a ripartire in gruppi tematici la vasta materia da trattare.  Ciò vale sia per la parte dedicata alla mitologia che per quella dedicata ai dati archeologici.  Specialmente in quest'ultima parte le suddivisioni, cronologiche e stilistiche, saranno molto approssimative e convenzionali.  Per esempio, si userà il concetto di "ambre dedaliche" per raggruppare convenzionalmente categorie di sculture che hanno determinati elementi di affinità fra loro.  Importante sarà fornire un approccio storico ai miti dell'ambra: quando e come fiorirono, perchè e ad opera di quali culture.  Le risposte, ragionevolmente, non potranno che essere basate su probabilità più che su certezze, ma, in ogni caso, gli argomenti che determinano tali probabilità vanno formulati e chiariti.


Parte prima. Mitologia
Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch'havea incontro a sè udito,
quei ch'ancor fa li padri ai figli scarsi 
(Dante, Paradiso XVII.1-3)


1) Fetonte, le Eliadi e Cigno.

Uno fra i miti più complessi ed affascinanti del mondo greco è quello di Fetonte, il figlio del sole caduto nel fiume Eridano.  Per cercare di comprenderlo nei suoi vari significati prenderemo in esame le sue principali versioni e le sue varianti, per poi passare alle leggende ad esso correlate, e, in particolare, a quelle delle isole Elettridi e di Dedalo e Icaro.
Il mito di Fetonte è noto, prima di tutto, attraverso quella che potremmo chiamare una vulgata, o un filone principale, rappresentata essenzialmente da Ovidio, Luciano e Nonno di Panopoli.  Narra Ovidio (Metamorfosi I.750-II.405) che Fetonte era coetaneo di Epafo, il quale, secondo la mitologia greca, altri non era che il bue Api, figlio di Io, sacerdotessa argiva amata da Zeus e trasformata in giovenca da Hera, gelosa di lei. Epafo, figlio di Zeus, un giorno mise in dubbio la paternità divina di Fetonte, il quale, furioso, andò a lamentarsi con la madre Climene.  Climene giurò a Fetonte che egli era nato dal suo amore con il Sole, e lo invitò a recarsi alla casa ove il Sole (Helios) si ferma all'estremo Oriente prima di salire verso il cielo.  Il giovane si recò alle dimore del padre, splendenti d'oro, d'avorio e di pietre preziose, e salì nella stanza di Febo, il quale sedeva sopra un trono d'oro e smeraldi, avvolto in veste purpurea, circondato da Secolo, Anno, Mese, Giorno, Ore e Stagioni. Il dio accolse il figlio e lo fece parlare. Fetonte chiese al Sole di dargli un segno con cui provasse ch'egli era suo padre, e il dio gli promise, con solenne giuramento, qualunque cosa egli avesse chiesto.  Il giovane allora gli domandò di usare il carro solare per un giorno.  Di fronte a quella richiesta, il Sole si disperò, rimpiangendo di non poter essere spergiuro.  Poi spiegò al figlio che neppure il sommo Giove a-vrebbe potuto essere un buon auriga di quel cocchio e che "il cammino è all'inizio erto, alto e vertiginoso nel mezzo, chino e precipitevole alla fine". "Inoltre - spiegò il Sole - il cielo tiene in movimento le stelle, e il carro deve passare vicino alle costellazioni minacciose: il Toro con le corna appuntite, l'Arciere che scaglia i dardi, il Leone, lo Scorpione... I cavalli che trainano il carro sono focosi e insofferenti al morso".  Ma Fetonte fu sordo agli ammonimenti paterni.  Abbracciando e lusingando il padre, lo convinse a condurlo fino al cocchio aureo, opera del fabbro Vulcano.  Già era sorta l'Aurora, e il Sole ordinò alle Ore di aggiogare i cavalli.  Poi unse gli occhi di Fetonte affinchè non fossero offesi dalle fiamme, gli impose sul capo i raggi e lo consigliò sul modo di seguire la retta via del cielo; alla fine, pieno d'angoscia, cercò, ma invano, di dissuaderlo per l'ultima volta.  Fetonte balzò sul carro incitando alla corsa gli alati cavalli Eoo, Piroo, Flegonte ed Eto.  Attraverso le nebbie del mattino, i focosi destrieri si levarono nell'aria; ma ben presto si accorsero che il carro era più lieve del solito ed assai più instabile.  Così lasciarono la strada consueta e non risposero ai comandi dell'insolito auriga, il quale ormai s'era smarrito nel cielo.  Fu così che il carro solare riscaldò i freddi Settentrioni e la costellazione della Serpe.  Fetonte guardò la terra dall'alto, impallidì e fu impietrito dalla paura.  
Ormai i cavalli correvano per il cielo senza governo, in mezzo ai simulacri mostruosi delle costellazioni.  Alla vista del terribile segno dello Scorpione, il giovane Fetonte abbandonò le redini: i cavalli spinsero il carro troppo vicino alla terra, che si disseccò e incominciò a bruciare.  Il carro di fuoco vagava incendiando boschi e montagne, disseccando i fiumi e le sorgenti; e fu allora che - sempre secondo Ovidio - gli Etiopi divennero neri al suo avvicinarsi.  Il mare cominciava ad abbassarsi e sulla sua superficie galleggiavano animali marini morti.  Infine la dea Terra si levò dal suolo emergendo fino al collo, e in tale posa invocò Giove, il re degli dei, lamentando che il cosmo stava ripiombando nel caos originario e invitandolo a salvare quanto rimaneva ancora del mondo.  Poi si ritirò nei suoi profondi antri sotterranei.  Il sommo Giove brandì il fulmine e folgorò lo sventurato auriga.  Il carro fu frantumato, i cavalli fuggirono nel cielo e Fetonte morì precipitando verso terra come una stella cadente, con le chiome avvolte dalle fiamme.  Il suo corpo fu accolto dal fiume Eridano e fu sepolto dalle ninfe Esperie, che sulla sua tomba di marmo incisero il seguente epitafio: “Qui giace Fetonte, auriga del carro paterno.  Male egli lo resse, ma fallì in una grande impresa”.


































Fig.1: Firenze, Museo degli Uffizi. Sarcofago con le Eliadi e Fetonte che ascende ascende al cielo, la sua caduta nell'Eridano, sdraiato in basso, Cigno tramutato in cigno sotto la quadriga (al centro) ed Helios consolato per la morte del figlio (a destra); II sec.d.C.
Fig.2:  Verona, Museo Maffeiano. Sarcofago raffigurante la caduta di Fetonte nell'Eridano (sua raffigurazione giovanile in basso), Eliade piangente al centra in basso, Helios, Climene e Fetonte in alto a destra; II secolo d.C.
Fig.3: Nepi, Cattedrale. Sarcofago con scena della caduta di Fetonte nell'Eridano; III sec.d.C.
Fig.4: Firenze, Museo dell'Opera. Sarcofago con scena della caduta di Fetonte folgorato da Zeus; II sec.d.C.  (fig.1-4: Negativi Ist.Archeologico Germanico Roma)
Il giorno dopo il Sole, afflitto per l'accaduto, non si levò, e la terra fu illuminata solo dai fuochi del grande incendio che divampava nel mondo.  La madre Climene trovò il sarcofago del figlio e vi versò tutte le sue lacrime.  Ma ancora di più si disperarono le tre sorelle di Fetonte, le Eliadi; costoro, a furia di piangere, si trasformarono lentamente in alberi, mentre della loro natura umana non restò che la bocca, che invocava Climene.  Nulla potè fare la madre: dai rami recisi delle figlie-alberi usciva sangue, mentre le lacrime che continuavano a stillare dai tronchi venivano consolidate in ambra dal sole; e il limpido fiume riceveva queste lacrime d'ambra per donarle alle giovani spose dei Latini.
Lì dove cadde Fetonte venne anche Cigno, figlio di Stenelo, re dei Liguri e parente del defunto per parte di madre.  Anch'egli riempì di lamenti le rive dell'Eridano e le selve popolate dalle Eliadi.  Mentre piangeva fu trasformato in cigno e da allora abitò presso quelle rive.
Frattanto il Sole era corrucciato con Giove per la morte del figlio e non voleva più guidare il carro celeste, sicchè, a causa del suo dolore, la terra restò senza la luce dell'astro.  Ma alla fine gli dei seppero convincerlo ed egli riprese i suoi cavalli e il carro per riportare la luce nel mondo.
Alla medesima tradizione cui aveva attinto Ovidio si erano ispirati anche altri autori; ad esempio Cicerone (Dei doveri 3,49) ricorda la promessa fatale del Sole al giovane figlio e la rovina che ne seguì.  Al racconto ovidiano si rifaceva un componimento di Quinto Sulpicio Massimo, un ragazzo di undici anni che aveva partecipato con successo al Certame Capitolino del 94 d.C.  I versi che aveva composto furono fatti incidere sulla sua tomba, essendo egli morto poco tempo dopo il concorso poetico.  
Peraltro risulta che in età neroniana il mito di Fetonte avesse goduto di notevoli favori, e ciò si spiega alla luce del fatto che il principe si serviva spesso nel suo apparato ideologico della figura di Helios.
Concorda con la trama di Ovidio il XXV Dialogo degli dei di Luciano, autore del II secolo d.C.  In quest'operetta Zeus si lamenta con Helios, il Sole, perchè questi aveva permesso al figlio di fare tanti danni; il nume si scusa raccontando che Fetonte lo aveva pregato con tanta insistenza ed invano era stato ammaestrato sul modo di condurre i cavalli.  Alla fine Zeus perdona Helios e gli si rivolge con queste parole: "Le sorelle seppelliscano Fetonte nell'Eridano, là dove egli è caduto precipitando dal carro, e versando lacrime d'ambra sopra di lui siano mutate in pioppi".
Il tema di Fetonte, secondo la versione più diffusa, ritorna su alcuni sarcofagi romani del II e del III secolo d.C., nei quali campeggiano al centro la quadriga e l'eroe che precipita a terra, mentre ai lati sono raffigurate altre scene ed altri protagonisti del mito, quali l'Eridano, le Eliadi, il vecchio Cigno e l'animale nel quale si tramutò, il colloquio di Fetonte con il padre Helios ed altri particolari della vicenda (fig.1-4).

2) L'Eridano e gli astri.

Sostanzialmente alla medesima tradizione si rifaceva Nonno di Panopoli (città in Egitto), autore del V secolo d.C.  Nelle Dionisiache (XXXVIII.105-434) di Nonno il dio del vino, Bacco, si fa raccontare da Hermes il mito “caro ai Celti dell'Occidente: come Fetonte fosse rotolato attraverso l'aere e per quale motivo le Eliadi, presso le acque dell'Eridano piangente, fossero diventate alberi e perchè dai loro rami fronzuti stillassero nei flutti lacrime lucenti”. Hermes narrò allora che da Climene, figlia di Oceano e Tetide, nacque Fetonte, figlio di Helios.  Il giovane crebbe nell'isola di Trinakia (la Sicilia), dove pascolavano le mandrie del Sole, e dove egli giocava con un piccolo carro solare, fino al giorno in cui, accompagnato da Climene, andò a chiedere il cocchio al padre.  Quanto segue già lo sappiamo; ma alla fine Nonno aggiunge: “Il padre Zeus stabilì Fetonte nell'Olimpo; là egli è l'Auriga e porta questo nome.  Dirige col suo braccio scintillante nei cieli un carro radioso di stelle, e delinea l'immagine di un auriga che balza in corsa, come se avesse ancora desiderio del carro paterno, anche in mezzo agli astri.  Pure il fiume, consumato dal fuoco, salì nella sfera celeste, e per volere di Zeus l'onda tortuosa dell'infuocato Eridano si avvolge in un cerchio di stelle.  Le sorelle del guidatore caduto e scomparso sì presto furono trasformate in alberi e dagli alberi piangenti e dalle loro fronde fanno stillare un'inestinguibile rugiada”.  
Dunque Fetonte, secondo questa versione, sarebbe divenuto la costellazione dell'Auriga e l'Eridano quella del Fiume.  
Probabilmente rientrava nella tradizione "vulgata" anche il racconto di Claudiano, poeta del IV-V secolo d.C., il quale (Carme XXVIII: Panegirico per il VI consolato di Onorio, 159-177) ci dà questa bella immagine del dio fluviale Eridano:
“Egli alto levò il capo sulle acque che scorrevano placidamente, e sulle rive rilucevano le sue auree corna, che sul volto madido mandavano luce.  Un ornamento non comune di canne gli velava il crine bagnato; i rami verdeggianti delle Eliadi facevano ombra al suo capo e ambre fluivano da tutti i suoi capelli.  Una veste copriva le ampie spalle e Fetonte aggrappato al carro paterno gli incendiava il manto azzurro.  Un'urna tenuta sotto il grembo, splendida di astri cesellati, è la prova del suo rango fra le stelle.  Infatti il Titano Fetonte segnò nell'Olimpo tutti i temi del suo lutto: un vecchio trasformato dalle piume, le sorelle trasformate dalle fronde e un fiume che lava le ferite del figlio morente.  Sta nelle gelide plaghe l'Auriga, le sorelle Iadi conservano le vestigia del fratello, ed un circolo latteo bagna le ali protese del compagno Cigno, lo stellato Eridano vagando con curve sinuose solca la chiara volta di Noto e scorre con gorgo siderale sotto ad Orione terribile per la sua spada”.
Dunque, secondo Claudiano, Fetonte divenne la costellazione dell'Auriga, le Eliadi divennero le Iadi (Hyades, "le piovose", erano sette stelle sopra il Toro), Cigno divenne il Cigno e l'Eridano il Fiume.
Avieno, autore del IV secolo d.C., compose un poemetto astronomico intitolato Phaenomena, in cui parla della costellazione del Fiume, la quale parte dal piede sinistro di Orione, tocca il legame che unisce fra loro i Pesci e si dirige verso la zona della Balena; questo Fiume per alcuni sarebbe il Nilo, ma per molti autori - prosegue Avieno - è l'Eridano, che Giove trasformò in costellazione dopo la caduta di Fetonte, il cui carro, troppo leggero, fu trascinato follemente dai cavalli alati (Fenomeni 780-806).
Le correlazioni fra la saga di Fetonte e l'astronomia erano certamente antiche. Aristotele (Meteorologia 345 a)  attesta che secondo i Pitagorici la Via Lattea nacque dalla corsa di una stella mossa durante il viaggio di Fetonte.  Innumerevoli dovettero essere le speculazioni sulla saga del figlio di Helios in relazione agli astri del firmamento.  Secondo Diodoro (V.23.2) l'incendio causato da Fetonte nel cielo creò la via Lattea.  Un viaggiatore del secolo scorso, il Beaufort, vide alcuni rilievi, oggi scomparsi, pertinenti al tempio di Tyche (la dea Fortuna) a Side, sulla costa anatolica meridionale; questi rilievi, verosimilmente di età romana, raffiguravano i segni zodiacali: i Pesci, l'Ariete, il Toro, i Gemelli, il Cancro e, cosa sorprendente, un cigno ed un giovane nudo, personaggi astrali che probabilmente erano connessi con il mito di Fetonte e di Cigno.
La trasformazione dell'Eridano in costellazione - i Greci dicevano: il suo catasterismo - probabilmente fu concepita, o , in ogni caso, fu resa celebre da Arato di Soli, poeta ed erudito del III secolo a.C., autore dei Fenomeni, un poemetto sugli astri del cielo che godette di tanta fortuna da essere tradotto da Varrone Atacino, da Cicerone, da Cesare Germanico e da Avieno.  Ai vv.359-360 Arato scrive: “Solitarie infatti sotto i piedi degli dei (cioè sotto la volta del cielo) corrono lassù le reliquie dell'Eridano, il fiume molto compianto”.  Forse Arato riteneva l'Eridano un fiume leggendario e non era convinto della sua identificazione con qualche corso d'acqua specifico (in effetti nessuno poteva rispondere ai requisiti straordinari dell'Eridano, fiume dell'ambra) e perciò egli potè credere che esso fosse stato trasformato in costellazione.  L'operazione compiuta da Arato creò dei problemi di interpretazione per il fatto che di solito, per gli antichi, ciò che viene trasformato in astro o costellazione scompare dalla terra, mentre il fiume Eridano in epoca ellenistica e romana era identificato con il Po, e dunque ci sarebbero stati due Eridani: uno in terra e uno in cielo.  L'imbarazzo è ben percepibile in un commento a Dionisio Periegeta (Eustazio, Commento a Dionisio Periegeta 288), in cui si parla dell'identità o, viceversa, della possibile diversità fra l'Eridano e il Po, e si interpreta Arato come se avesse concepito un Eridano celeste e uno terrestre.  Il commentatore prosegue: “Dionisio, come se ancora ci fosse l'Eridano, espone anche le leggende su di lui, evidentemente quelle su Fetonte, il quale fu sbalzato fuori dal carro solare del padre e cadde nell'Eridano; colà le sue sorelle Eliadi di notte si lamentavano, e dai loro occhi stillavano lacrime d'ambra.  Poi, divenute pioppi, si dice che avessero continuato a stillare questo genere di lacrime.  I giovani Celti, seduti sotto i pioppi, estraggono le lacrime d'ambra dai riflessi d'oro: raccolgono, in altri termini, l'ambra”.
Uno Scolio al verso 355 di Arato asserisce che anche l'Eridano fu coinvolto dal fulmine di Zeus che colpì Fetonte, e dunque "morì" e fu trasformato nella costellazione del Fiume.  Lo Scolio al v.359 dice: “Reliquie dell'Eridano: esso ha inizio dal piede sinistro di Orione.  E secondo Arato si chiama Eridano.  Ma non apporta alcuna prova di ciò... L'Eridano appartiene al mare della Galazia (cioè della terra celtica) che è prossima all'Italia.  È chiamato dagli indigeni Bochersos.  Gli Egiziani dicono che il catasterismo è il Nilo”.  L'identificazione del Fiume con l'Eridano, proposta da Arato, fu criticata anche da Eratostene (XXXVII), erudito alessandrino.  
















Fig.5: Il Po nello schema della costellazione dell'Acquario (da un manoscritto dell'XI sec. conservato a Monaco)

L'espressione di Arato "fiume molto compianto" dovette determinare una confusione con Fetonte, che era colui che fu pianto dalle Eliadi e da Cigno.  Questa confusione fece sì che venissero scambiati i ruoli fra Fetonte e l'Eridano, com'è attestato in Servio (Commento ad Eneide VI.659).  Questo autore afferma che Arato parla dell'Eridano celeste, ma che esiste l'Eridano della Venetia, cioè il Po, un fiume che secondo alcuni si dirige verso gli Inferi, secondo altri sgorga dagli Inferi sulla terra.  Quindi prosegue dicendo che Eridano era figlio del Sole, che non seppe condurre il carro solare e cadde nel fiume italico; egli fu detto Fetonte per la luce della sua vampa (Fetonte vuol dire "splendente"), e diede il vecchio nome al fiume.  "Per questo troviamo confusi i due nomi tra il figlio del Sole e il fiume".  Il racconto termina con la metamorfosi delle Eliadi.  
Probabilmente per spiegare la coesistenza dell'Eridano in cielo con quello della Venetia, Strabone (V.1.9) - o gli autori che egli seguiva - localizzerebbe il leggendario Eridano, alla cui esistenza egli non crede,  "presso il Po".
Per altro verso, sorse anche la confusione fra il Fiume e il corso d'acqua che scaturisce dall'urna dell'Acquario.  Motivo per cui in certe raffigurazioni l'Acquario è identificato con il fiume Po-Eridano (fig.5).  Un'altra tradizione voleva che Fetonte fosse l'astro di Saturno.
Un'altra confusione sorse a proposito della natura delle lacrime stillanti dalle Eliadi.  "Ambra" si diceva in greco "elektron" (anche "elektros"), ma la stessa parola indicava anche l'"elettro", una lega d'oro e d'argento.  Forse per questo Filostrato, autore del II-III secolo d.C., parlò delle "lacrime d'oro" delle Eliadi.  Nella XI delle sue Immagini, Filostrato seguiva la versione tradizionale ovidiana, visto che evocava la figura di Terra, levatasi per porre fine al sovvertimento e all'incendio universale causati da Fetonte.  Bella è l'immagine filostratea del canto dei cigni:
“Da allora i cigni cantando dolcemente comporranno un canto per il fanciullo, e i loro stormi levatisi dal Caistro e dall'Istro canteranno e tutti udranno questo racconto; per il canto si serviranno dello Zefiro lieve che incontrano lungo la strada; si dice infatti che esso si accordi insieme ai cigni nel concerto luttuoso”
Dopo avere descritto la metamorfosi delle Eliadi, Filostrato riprende:
“Anche il fiume, emergendo dal gorgo, canta il suo lamento e  offre i suoi recessi a Fetonte, accogliendone il corpo; renderà presto fertili le Eliadi, infatti coi venti e con il gelo che il fiume produce renderà duri come pietra e accoglierà i frammenti d'oro che cadono dai pioppi, e attraverso le acque serene li porterà ai barbari che abitano l'Oceano”.
I poeti antichi si sentivano liberi di interpretare e di rielaborare la tradizione mitologica; erano, in realtà, i poeti stessi che creavano i miti.  Ad esempio, Virgilio, nella VI Bucolica (vv.62-63), immagina le Eliadi, dette qui Fetontiadi, trasformate in ontani, mentre nell'Eneide egli parlava di pioppi, e non per questo dobbiamo pensare a tradizioni diverse:
“Narrano infatti che Cicno, piangendo l'amato Fetonte,
tra selve di pioppi, nell'ombra delle sorelle, cantava
e consolava coi versi il desolato suo amore:
e una vecchiezza raggiunse bianca di morbida piuma
e questa terra lasciò, salì dietro il canto alle stelle”.
                          (Eneide X.189-193, trad.Calzecchi Onesti).


3) Il mito nei tragici greci.

A parte le varianti nate o per spiegare il catasterismo, o per puro estro poetico, il filone della tradizione è sostanzialmente compatto.  Gli autori che abbiamo preso in esame sono però tutti relativamente tardi e non possono essere considerati i primi ad avere concepito tale complesso mitologico.  In effetti, la vulgata che conosciamo attraverso Ovidio, Nonno e gli altri autori, risale sostanzialmente ai tragici greci del V secolo a.C. Pertanto bisogna ora addentrarsi nella temperie culturale di questi ultimi autori.
Plinio il Vecchio (Storia naturale XXXVII.2.31), a proposito della leggenda di Fetonte e delle Eliadi, afferma che per primi ne parlarono i poeti Eschilo, Filosseno, Euripide, Nicandro e Satiro.
Nell'Ippolito di Euripide il coro delle donne così canta:

“Oh, in luoghi inaccessibili
ed in chiuse convalli uccello alato
di me facesse un dio
tra gli stormi che volano,
sì che levare io mi potessi in alto
sopra i flutti marini
della sponda adriatica
e l'acque dell'Eridano,
dove sulla corrente di viola
le infelici sorelle di Fetonte
stillano nel compianto
raggi e lacrime d'ambra luminosa”
                    (vv.732-742, trad.Diano)

Euripide scrisse anche una tragedia intitolata Fetonte, della quale resta qualche frammento.  Ma quest'opera non era la fonte della versione diffusa in età romana da noi esaminata.  Infatti la trama euripidea voleva che Climene, madre di Fetonte, fosse stata sposa di Merope, re degli Etiopi, il quale pensava di dare una moglie al figliastro; ma quest'ultimo si recò dal padre Helios e compì il folle volo sul carro luminoso.  Il corpo di Fetonte venne riportato alla reggia di Merope, ove fu nascosto nel tesoro regale.  Le differenze rispetto alla vulgata sono tali da far credere che la tragedia euripidea non fosse stata presa a modello dai successivi narratori del mito.  Forse però si ispirarono, in parte almeno, ad Euripide sia Carete di Mitilene, storico dell'età di Alessandro Magno, secondo il quale Fetonte cadde in Etiopia, nell'isola di Ammone (ove c'era un suo santuario oracolare e dove si generava l'ambra), sia l'autore del Trattato sul cosmo attribuito ad Aristotele (Sul cosmo 6.400 a 30), che localizza in Oriente la caduta dell'eroe.
Fu piuttosto la tragedia di Eschilo intitolata Eliadi ad essere seguita dagli eruditi posteriori.  Delle Eliadi restano pochi frammenti, dai quali si apprende che il poeta identificava l'Eridano con il Rodano e lo situava in Iberia (cioè le regioni a Ovest del Rodano); in un frammento si legge che veniva spiegato a Fetonte come suo padre attraversasse l'oceano, ai confini delle terre occidentali, entro una coppa d'oro forgiata da Efesto, e in un altro che “le donne di Adria avranno consuetudine di lamenti”.  Dunque in Eschilo il mito di Fetonte aveva anche una dimensione adriatica; probabilmente infatti il poeta, come sarà in seguito per Apollonio Rodio, pensava che l'Eridano si biforcasse e sfociasse da una parte nel mar Ligure (con il Rodano) e dall'altra in Adriatico (con il Po).  
È possibile che ad Eschilo si fosse ispirato un commentatore dell'Odissea, il quale narra più o meno negli stessi termini di Ovidio la vicenda di Fetonte e delle sue sorelle, ma alla fine afferma che il mito si trova nelle opere dei poeti tragici.  Difficilmente però egli si rifaceva a Euripide, secondo il quale Fetonte era figlio di Climene, mentre egli ne fa un figlio della ninfa Rode.  Inoltre egli afferma che le Eliadi piansero il fratello nei luoghi presso il mare Celtico, il quale corrisponde all'odierno mar Ligure, ove sfocia il Rodano, cioè l'Eridano (o un ramo dell'Eridano) di Eschilo.
Del resto, è il contesto stesso della versione ovidiana che riconduce, per certi aspetti, a temi tipicamente eschilei: la connessione fra il motivo di Epafo e quello di Fetonte ci fa rammentare quanto fosse stato importante in Eschilo il mito di Io e di suo figlio Epafo (questo era il nome che i Greci davano al bue Api, le cui origini mitiche erano pure interpretate in chiave greca), tema estremamente attuale poco prima della metà del V secolo a.C., quando Atene era impegnata politicamente e militarmente nelle vicende egiziane.  Il poeta aveva trattato ampiamente di Io e di Epafo nelle Supplici e nel Prometeo incatenato, ove, peraltro, l'eroina è definita "moglie legittima" di Zeus (Prometeo 834), mentre Epafo era definito nelle Supplici (v.581) "figlio incensurabile".  I dubbi sulla paternità di Fetonte si spiegherebbero dunque per il fatto che Climene non era moglie legittima di Helios, e, del resto, la tematica della legittimità dei figli era particolarmente attuale alla metà del V secolo, quando una legge di Pericle limitò i diritti di cittadinanza ai soli figli di genitori ateniesi.
Pertanto, probabilmente almeno una parte della versione canonica del mito di Fetonte risale alle Eliadi di Eschilo.  Il giudizio sulla parte centrale del mito sarà invece più cauto, poichè conosciamo troppo poco la letteratura greca arcaica e classica per poterci pronunciare.
Esiste però una versione diversa del mito, che apparentemente si richiama ad una tradizione ancora più antica di quella dei tragici del V secolo: si tratta della versione che chiameremo "esiodea".
Due delle Favole di Igino, erudito di età augustea, la 152 e la 154, narrano la storia di Fetonte.  La prima è la seguente:
“Fetonte, figlio di Sole e di Climene, essendo salito di nascosto sul carro del padre ed essendosi innalzato troppo da terra, per la paura cadde nel fiume Eridano.  Avendolo colpito Giove col fulmine, ogni cosa prese a bruciare.  Giove, per eliminare con un qualche pretesto il genere umano, finse di voler spegnere l'incendio e così fece dilagare ovunque i fiumi e perì tutta la stirpe dei mortali, eccetto Pirra e Deucalione.  Le sorelle di Fetonte poi, poichè avevano aggiogato i cavalli contro il volere del padre, furono trasformate in alberi di pioppo” (Favola 152).  L'altra favola narra quanto segue:
“Fetonte, figlio di Climeno, figlio del Sole e della ninfa Merope, che sappiamo essere un'Oceanina, avendo compreso da un'indicazione del padre che suo nonno era il Sole, avendo ottenuto il carro, ne fece cattivo uso.  Infatti lo guidò troppo vicino alla terra, e ogni cosa bruciò per la vicinanza del fuoco, ed egli, colpito dal fulmine, cadde nel fiume Po; quest'ultimo è detto dai Greci Eridano, e Ferecide per primo gli diede questo nome.  Gli Indiani divennero neri perchè il loro sangue prese un colore scuro per il calore del fuoco che si era avvicinato a loro.  Le sorelle di Fetonte poi, mentre piangevano per la morte del fratello, furono trasformate in alberi di pioppo.  Le loro lacrime, come dice Esiodo, si consolidarono in electro; ed esse pertanto furono chiamate Eliadi.  Esse invero sono Merope, Helie, Aegle, Lampetie, Phoebe, Aetherie, Dioxippe.  Cigno poi, re di Liguria, che era parente di Fetonte, mentre stava piangendo il parente, fu trasformato in cigno; e quest'ultimo pure, in punto di morte, canta in modo lamentevole”.
In Igino le Eliadi sono sette e non tre; Fetonte, complici le Eliadi, sottrae di nascosto il cocchio al padre e Giove distrugge l'umanità con il diluvio universale: queste sono le più evidenti differenze di Igino dalla vulgata ovidiana.  Si noti inoltre che Igino usa, in latino, la parola electrum, evidentemente perchè non era certo di poterla rendere con sucinum ("ambra"), o se essa dovesse significare "lega d'oro e d'argento".
Generalmente si ritiene che la fonte di queste favole fosse l'Astronomia attribuita ad Esiodo, ma già dagli antichi ritenuta non autenticamente esiodea, e dai moderni ritenuta spuria e di incerta datazione.  Non è però da escludere che in Igino sia confluita anche materia dei tragici del V secolo: in particolare, il tema di Zeus che cerca un pretesto per distruggere l'umanità richiama un passo del Prometeo incatenato di Eschilo (vv.231-2).  Tuttavia anche lo stesso Esiodo, vissuto circa nell'VIII secolo a.C., trattò il tema di Fetonte: nella sua Teogonia (vv.986-991) il giovane eroe è detto figlio di Eos (l'Aurora) e di Cefalo, e Afrodite lo sceglie quale custode notturno del suo tempio; sempre nella Teogonia (v.338) è nominato anche l'“Eridano dai gorghi profondi”, figlio di Oceano e di Tetide.  È possibile che sia esiodeo anche un brano del Catalogo delle donne conservato in un papiro egiziano assai frammentario, in cui sono nominati alcuni popoli barbari semileggendari, tra i quali gli Iperborei, e poi "le correnti rapide del profondo Eridano" e infine "l'ambra".

4) Caratteri dei miti dell'ambra.

Le origini del mito di Fetonte ci riconducono assai lontano nel tempo.  Molti studiosi, fin dal secolo scorso, ritengono che questa saga fosse la versione greca del mito orientale della stella Lucifero.  Tutti conosciamo la tradizione ebraica (Deuteroisaia 14.12) sull'angelo ribelle che si levò nel cielo contro l'Altissimo e fu sprofondato agli Inferi; la versione cananea è più articolata: vi si immagina che la stella del mattino fosse un leone astrale, Ashtar, che sfidava il dio celeste El e veniva messo a morte da un emissario di quest'ultimo.  
Il legame tra Fetonte e Venere, la dea dell'astro della sera e del mattino - al pari della dea cananea Ashtart - si spiegherebbe dunque se Fetonte, "lo splendente", il figlio del Sole, fosse stato da tempi remoti il nume della stella Lucifero, che troppo aveva osato salendo verso il cielo, ed era stato folgorato e fatto precipitare a terra dal dio supremo, dal dio della luce diurna, Zeus.  Tuttavia va detto che una tale interpretazione si fonda su somiglianze nella struttura dei racconti, ma non su prove che documentino la parentela fra il tema di Fetonte e quello orientale della stella Venere-Ashtart.
Le leggende dell'ambra furono collegate con una delle estremità della terra, quella ove il sole tramonta.  Secondo una delle più diffuse credenze della Grecia arcaica, la terra sarebbe stata circondata dall'Oceano, una sorta di largo fiume ad anello; alle due estremità, la orientale e la occidentale, alte montagne, l'Atlante e il Caucaso (o due titani, Atlante e Prometeo, legato al Caucaso) avrebbero separato la terra dal cielo; presso queste montagne il sole, col suo carro di fuoco, sarebbe passato per levarsi al mattino e per tramontare alla sera.  Nella letteratura greca, e specialmente in Esiodo, si parla più volte di questi luoghi "estremi" (eschatià), ove tendenzialmente si ambientavano diverse leggende.  Ovviamente questi luoghi estremi dovettero allontanarsi sempre più dalla Grecia con il progredire delle conoscenze geografiche.  La parte più remota dell'Adriatico poteva essere considerata un'estremità occidentale, o una zona prossima al finis terrae, poichè si credeva che questo mare si estendesse in direzione Est-Ovest molto più di quanto non sia nella realtà: l'Italia era, per gli antichi, circondata da un mare "inferiore", il Tirreno, e da uno "superiore", l'Adriatico.  Alla fine di questo mare, scarsamente e con difficoltà frequentato dai Greci, c'era un fiume straordinario come il Timavo, che scaturiva dalle profondità della terra non lungi dal mare, e che fu ritenuto la "sorgente del mare".  L'Italia stessa era detta Esperia, "terra del tramonto", perchè tale era nell'ottica dei Greci, e già si è detto che Fetonte fu sepolto dalle ninfe Esperie, mentre nel § 10 vedremo come Eracle avesse fatto tappa presso l'Eridano per giungere al giardino delle Esperidi, le ninfe che vivevano all'estremità occidentale della terra.  Del resto, secondo un tale Teomene, presso la Grande Sirte ci sarebbero stati sia il giardino di queste ninfe che la palude Elettro, nella quale dalle cime dei pioppi scendeva l'ambra.  Per contro, Eschilo sembra localizzare l'Eridano approssimativamente nell'attuale Francia.  L'origine dell'ambra da simili luoghi favolosi, frequentati dal Sole al tramonto, determinò una connessione strettissima fra la pietra preziosa e l'astro, donde il proliferare di miti "solari" intorno alla questione dell'ambra.
Probabilmente era legata alla mitologia "solare" la teoria della "genesi calda" dell'ambra.  Come vedremo, in un'opera attribuita ad Aristotele, i Racconti mirabili 81, si racconta che l'ambra nasce presso un lago d'acqua termale ove era caduto Fetonte; secondo Plinio (Storia naturale XXXVII.33) certi autori sostenevano che la sostanza era prodotta al sorgere della costellazione del Cane, cioè nel periodo più caldo dell'anno.  Tuttavia, per Pitea di Marsiglia, per lo stesso Plinio per la Meteorologia aristotelica e per Filostrato essa si generava nel gelo.  La teoria della "genesi fredda" era legata soprattutto alla consapevolezza che l'ambra veniva dalle regioni fredde del Nord.

5) Le Meleagridi e l'ambra.

La mitologia antica era frutto della fantasia e spesso si originava dall'abbinamento e dalla geminazione di più miti.  È stato Bertrand Russel a sottolineare come la fantasia si serva di elementi già esistenti per costruire delle nuove creazioni: l'ippogrifo prende elementi dal cavallo e da un uccello rapace, la chimera dal leone, dalla capra e dal serpente... Nello stesso modo il mito delle Meleagridi nel Delta del Po nacque dalla contaminazione fra il mito di Meleagro e il mito delle Eliadi.
La storia di Meleagro e delle sue sorelle è ambientata dapprima in Etolia, regione della Grecia centrale.  Racconta Antonino Liberale, nella II delle sue Metamorfosi, che Oineo, re dell'Etolia, fece adirare Artemide per averla trascurata durante un sacrificio agli dei.  Ella allora inviò un feroce cinghiale a distruggere i campi di Oineo; così Meleagro, figlio del re, insieme ai fratelli di sua madre Altea, organizzò la celebre caccia al cinghiale Calidonio.  Per il possesso delle spoglie dell'animale sorse una contesa fra Meleagro e i Calidonii da una parte e i fratelli di Altea ed i Cureti dall'altra.  L'uccisione dei fratelli spinse Altea a maledire il figlio e a bruciare il tizzone, datole dalle dee del destino, che sarebbe durato tanto quanto la vita del figlio.  Così anche Meleagro morì e le sue sorelle lo piansero a lungo, finchè Artemide non le trasformò - tutte tranne due - in uccelli e le trasferì nell'isola di Lero, davanti a Mileto, ove furono dette Meleagridi.  Altri autori attestano la presenza di questi uccelli nell'isola di Lero, ove erano considerati  sacri alla dea Parthenos e non erano cacciati nè dagli uomini nè dagli uccelli rapaci.  Per altro verso, i fregi fittili di molti templi della Ionia meridionale (anche di Mileto) e della Caria spesso raffigurano piccoli gallinacei che si direbbero pernici.  Non si saprebbe dire con quanta precisione i Greci e i Romani (specie quando tramandavano racconti antichi) si riferissero ad una ben precisa specie di animali, e in particolare alla Numida Meleagri, o gallina faraona.  Sembra che alcuni di questi uccelli vivessero anche in Atene, sull'Acropoli, e nelle paludi di Maratona, ove erano detti attagài.  Molti ve n'erano in un lago ricco di isolette presso le coste atlantiche del Nord-Africa, e in questo lago, detto Cefisiade o Elettro, dicevano che si producesse l'ambra.
Gli antichi stessi erano consapevoli che le leggende delle Meleagridi erano connesse con quelle delle Eliadi.  Il tramite è costituito dall'ambra.  Infatti Sofocle, in una sua tragedia perduta, raccontava che le sorelle di Meleagro, trasformate in uccelli, piangevano lacrime d'ambra nella lontana India.
Poichè il Delta del Po era ritenuto il sito più famoso ove "nasceva l'ambra", le galline Meleagridi furono ritrovate fatalmente anche in questa zona.  Lo attesta Strabone (V.1.9), il quale così scrive: “...e le isole Elettridi davanti al Po e le galline faraone in esse”.  Al pari della localizzazione geografica delle isole Elettridi, anche quella delle Meleagridi alternò fra il Delta padano e la Dalmazia settentrionale.  A Sud della punta dell'Istria infatti si localizzavano una o più isole dette Pullarie, "isole delle galline", che vanno identificate con le isole Meleagridi.
Dunque, un ramo della tradizione mitografica, di rispettabile antichità, immaginava che l'ambra acquisita presso le coste alto-adriatiche fosse connessa non tanto con le sorelle di Fetonte, quanto con le sorelle di Meleagro diventate uccelli.

6) Dedalo e Icaro.

Si è detto nel precedente paragrafo che i mitografi antichi procedevano per associazione di idee.  Questo è anche il caso della leggenda di Dedalo e Icaro nel Delta padano.  L'immagine di Fetonte che cade dal cielo poteva richiamare l'immagine di Icaro, altro giovanetto che cadde dal cielo, mentre stava fuggendo con il padre Dedalo dal Labirinto di Minosse, grazie alle ali adattate alle braccia dall'ingegnoso Dedalo.  Egli era poi precipitato in mare per essersi troppo levato in alto, vicino al sole, che fece sciogliere la cera che teneva unite le sue penne,  dimentico della via celeste scrupolosamente insegnatagli dal padre, proprio come accadde nel caso di Fetonte.
La connessione fra le saghe di Fetonte e di Dedalo è attestata in un'operetta alessandrina, le Narrazioni mirabili attribuite falsamente ad Aristotele.  Nel LXXXI capitolo dell'opera, l'autore scrive quanto segue:
“Nelle isole Elettridi, che si trovano nel golfo dell'Adriatico, dicono che ci sono due statue, una di stagno, una di bronzo, lavorate in stile arcaico.  Si dice che sono opera di Dedalo, ricordo del passato, di quando egli, fuggendo Minosse dalla Sicilia e da Creta, si spinse in questi luoghi.  Dicono che il fiume Eridano abbia formato davanti alla foce queste isole.  C'è anche una palude, secondo quanto si racconta, presso il fiume, la cui acqua è calda; esala da essa un odore pesante ed aspro, gli animali non vi si abbeverano e gli uccelli non possono sorvolarlo, perchè cadono e muoiono.  Il suo perimetro è di 200 stadi, la lunghezza di circa 10.  Le genti del luogo raccontano di Fetonte che cadde in questo lago colpito dal fulmine, e che ci sono intorno molti pioppi dai quali cade il cosiddetto "elektron".  Dicono che è simile alla gomma, ma che diventa duro come pietra, e che viene raccolto dalla gente del luogo per essere portato ai Greci.  Orbene, dicono che Dedalo sia giunto a queste isole, che se ne sia impadronito e che abbia dedicato in una di esse un'immagine sua ed una di suo figlio Icaro.  Poi, essendo giunti per mare fino a loro i Pelasgi, profughi da Argo, Dedalo fuggì e raggiunse l'isola di Icaro”.
Dedalo era considerato il principe degli artisti e degli artigiani della Grecia arcaica.  Egli avrebbe inventato le statue degli dei.  Gli artisti lo consideravano loro progenitore, se non anche loro maestro.  Nella letteratura greca, fin dagli albori, l'aggettivo "dedaleo" indicava gli oggetti più finemente lavorati, specie quelli metallici, mentre con daidalon si definiva un oggetto istoriato magistralmente.  Ancora in età imperiale si mostravano statue di divinità, generalmente in legno, attribuite a Dedalo, mentre in Sicilia e in Sardegna gli erano attribuite opere architettoniche.  Dopo la sua fuga da Creta egli sarebbe venuto in Occidente: la tradizione più diffusa voleva che fosse arrivato in Sicilia, alla reggia di Cocalos, re dei Sicani, le cui figlie fecero perire Minosse, giunto nell'isola per inseguire l'artista ateniese.  Questa tradizione ricevette una forma drammatica con il Dedalo e con i Kamikòi ("Gli abitanti di Camico") di Sofocle, nonchè con il Kokalos di Aristofane.  Un'altra leggenda voleva che Dedalo fosse giunto a Cuma, in Campania, ove avrebbe dedicato le sue ali nel tempio di Apollo.
Al pari del mito delle Meleagridi, anche quello di Dedalo è contraddistinto da una metamorfosi: quella di Perdix, nipote di Dedalo e da questi ucciso per invidia della sua bravura tecnica e trasformato da Atena in pernice.

7) Gli Argonauti

Della palude (o del lago) presso l'Eridano parla anche Apollonio Rodio, poeta ellenistico autore delle Argonautiche. Egli narrava come Giasone e i suoi compagni Argonauti fossero fuggiti dalla Colchide portando con sè il vello d'oro e la principessa Medea; inseguiti da Apsirto, figlio del re di Colchide, gli eroi risalirono l'Istro (il Danubio) e discesero per via fluviale fino all'alto Adriatico; qui imboccarono l'Eridano per raggiungere il Tirreno.

“La nave era corsa lontano
a vela: entrarono profondamente nel corso del fiume Eridano
là dove un tempo Fetonte, colpito al cuore dal fulmine ardente,
e bruciato a metà, cadde dal carro del Sole
nelle acque di questa profonda palude, ed essa ancor oggi
esala dalla ferita bruciante un tremendo vapore:
nessun uccello può sorvolare quelle acque
spiegando le ali leggere, ma spezza il suo volo
e piomba in mezzo alle fiamme. Intorno, le giovani
Eliadi, infelici, mutate negli alti pioppi,
effondono tristi lamenti, e dai loro occhi
versano al suolo le gocce d'ambra splendente.
Le gocce si asciugano sopra la sabbia ai raggi del sole,
e quando le acque della nera palude tracimano
a riva, sotto il soffio sonoro del vento,
rotolano tutte insieme verso l'Eridano
e i suoi flutti agitati.  I Celti hanno inventato
una storia, che sono le lacrime del dio Apollo, il figlio di Leto,
a formare i vortici, lacrime sparse un tempo, infinite,
quando giunse al popolo sacro degli Iperborei
e lasciò il cielo splendente per le minacce del padre,
irato a causa del figlio che gli partorì Coronide,
nella splendida Lacerea, presso le rive del fiume Amiro.
Questo è ciò che si racconta tra quegli uomini.
Gli eroi non avevano voglia di bere nè di mangiare;
la loro mente non andava ai piaceri.  Durante il giorno
giacevano affranti, sfiniti dall'odore cattivo
che mandavano le correnti dell'Eridano dal corpo
riarso di Fetonte, intollerabile; e poi la notte
sentivano i gemiti acuti, il triste lamento
delle Eliadi.  E le lacrime delle Eliadi correvano
sopra le acque, come fossero gocce d'olio.
Di là entrarono nel profondo corso del Rodano
che si getta nell'Eridano, e nel confluire le acque rimbombano e ribollono”.
                       (Argonautiche IV.595-629, trad.Paduano)

La palude di acqua calda e maleodorante va probabilmente identificata con la zona dei laghetti termali di Abano-Montegrotto.  Apollonio Rodio  dà dunque una versione particolare della genesi dell'ambra, legata a questa palude fetontea.  Inoltre egli si compiace di immaginare l'Eridano - che identifica con il Po - collegato con il Rodano; ma già abbiamo visto che lo stesso Eschilo faceva coincidere l'Eridano con il Rodano.  In età imperiale la leggenda degli Argonauti fu localizzata anche presso il Timavo, alle cui acque si sarebbe abbeverato uno dei cavalli dei Dioscuri, membri della spedizione di Giasone, e forse anche presso Aquileia, ove il toponimo Meteia (Colle di Medea) poteva evocare il nome della donna che accompagnava il capo degli Argonauti.
Per il poeta di Rodi le Eliadi avrebbero popolato le rive della palude padana.  Presso le ninfe dell'Eridano sarebbe giunto anche Eracle, durante una delle sue fatiche, quando stava cercando le mele delle Esperidi.  Ma di questo si parlerà fra breve.

8) Le isole Elettridi.

Nel mito riferito dallo pseudo-Aristotele e da Stefano di Bisanzio presso le foci del Po si trovano le isole Elettridi, il cui nome significa "isole dell'ambra".  Anche il geografo Strabone (V.1.9) localizza le isole Elettridi davanti al Po e afferma che vi si trovano le Meleagridi. Plinio il Vecchio (XXXVII.32) riferisce che gli autori greci che con maggiori dettagli hanno raccontato il mito delle Eliadi e delle isole Elettridi hanno localizzato queste ultime nel mare Adriatico, nel punto in cui si riversa il Po.  Tuttavia ad un certo momento gli studiosi greci e romani di geografia si debbono essere accorti che non c'erano, o non c'erano più isole alla foce del Po, o, quanto meno, che là non esistevano isole ove si raccogliesse l'ambra.  Per questo motivo si identificarono con le isole Elettridi alcune isolette della Dalmazia settentrionale.
Lo stesso Plinio, in un altro passo della Storia naturale, localizza le Elettridi presso l'Istria:
“Di fronte al territorio degli Istri ci sono le isole Cissa, Pullaria e le Apsirtidi, chiamate dai Greci dal nome di Absirto, fratello di Medea, colà ucciso.  Presso a queste alcune isole furono da loro chiamate Elettridi; in esse viene prodotta l'ambra, che i Greci chiamano "elettro"” (Storia naturale III.151-2).
L'autore del Periplo - sorta di descrizione delle coste e dei porti noti agli antichi - attribuito a Scilace di Carianda, navigatore del VI-V secolo, localizza le Elettridi nella Liburnia, cioè nella Dalmazia del Nord:
“In questa regione (in Liburnia) ci sono le seguenti isole, di cui ho da dire il nome - ce ne sono molte altre senza nome -.  L'isola di Istris, lunga 310 stadi, larga 120, le Elettridi e le Mentoridi.  Queste sono le isole grandi” (Pseudo-Scilace 21, Geographi Graeci Min., I, p.27).  Concorda con tale localizzazione il Periplo del Mediterraneo e del mar Nero composto verso la fine del II secolo a.C. e attribuito falsamente a Scimno di Chio:
“C'è poi il cosiddetto mare Adriatico.  Teopompo scrive che la sua disposizione geografica si trova separata da un istmo dal Ponto ed ha isole simili alle Cicladi, e fra queste le cosiddette Apsirtidi, le Elettridi e le Liburnidi” (Pseudo-Scimno 369-74, Geographi Graeci Min., I, pp.211-2).
Lo stesso autore sembra localizzare anche l'Eridano, il "fiume che porta la più bella ambra", in area dalmatica (394-5, Geographi Graeci Min., I, p.213).
Non è chiaro ove immaginasse site le Elettridi Apollonio Rodio, che nel suo poema narra dell'arrivo degli Argonauti presso "la sacra isola di Elettride, ultima fra tutte", accanto al fiume Eridano (IV.505-6), "la rocciosa isola Elettride" (IV.580).
Per finire, Sotaco localizzava in Britannia le rocciose Elettridi da cui stillava l'ambra, mentre Servio menziona un'isola Elettride (detta anche Phoibe) di fronte a Taranto.
Dove si trovassero le isole Elettridi non è facile a dirsi: probabilmente in origine esse non erano che una sorta di "Eldorado" occidentale, sul quale favoleggiavano i navigatori greci.  Man mano che le conoscenze geografiche dell'alto Adriatico divennero più precise e diffuse, la localizzazione delle isole Elettridi divenne, o, per meglio dire, cercò di diventare più precisa. Gli elementi su cui ci si poteva basare erano: a) queste isole erano presso la foce dell'Eridano; b) si trovavano nell'alto Adriatico.  A complicare le cose era venuto il catasterismo dell'Eridano, il quale determinò, come s'è visto, l'imbarazzo di molti autori nell'identificazione con un fiume preciso di quello che era diventato una costellazione.  Ne seguirono, come abbiamo detto, due identificazioni: esse erano isole alla foce del Po, oppure erano isole vicine all'Istria.  
Anche i moderni hanno espresso pareri contrastanti, sia circa le Elettridi, sia circa l'Eridano.  Il Brown identificherebbe quest'ultimo con l'Oceano (che gli antichi concepivano come un grande fiume che circonda la terra); il Déchelette ed altri autori pensano di identificare l'Eridano con l'Elba o la Vistola, fiumi delle regioni dalle quali proveniva effettivamente l'ambra in Italia e in Grecia.  Conseguentemente le Elettridi vengono ricercate fra le isole più vicine alle foci di quei due fiumi.  Il Kretschmer ritiene greca la parola Eridanos (del resto, c'era un piccolo fiume omonimo presso Atene), connessa con termini indicanti l'inizio e l'aurora.  Al contrario, il Pokorny crede che nelle lingue iberiche Rhodanos suonasse *Errodanos (e qui bisognerebbe fare atto di fede), e confronta il nome del fiume francese con altri idronomi europei, per sostenere l'origine non greca di Eridanos.  Aurelio Peretti, nel 1963, ha avanzato un'ipotesi suggestiva, anche se solo in parte convincente.  Secondo lui, Eridano era il nome etrusco o etruscoide del fiume che scorre presso Vicenza, il Retrone.  Infatti Eliano, autore del III secolo d.C., parla di un fiume Erétainos presso Vicenza, e la forma Eretainos poteva facilmente essere resa come *Eredainos.  In età romana il Retrone, insieme con tutto il sistema fluviale Brenta-Bacchiglione, cui era pertinente, si chiamava Meduacus.  Questo idronimo però doveva essere di origine celtica, mentre Eretainos doveva costituire il corrispondente idronimo etrusco o etruscoide (perchè non venetico?).  La questione del rapporto Eretainos-Eridanos è stata trattata pure dal Pellegrini e dal Prosdocimi.  Nel 1973 il Grilli ha ripreso in mano il problema, ed ha fatto notare: a) come in Esiodo (fr.150 Merkelbach-West) l'Eridano fosse un fiume degli Iperborei, popolo dell'Europa centrale o settentrionale; b) come in Eschilo la sua localizzazione fosse incerta, fra l'estremo Oriente e l'area alto-adriatica, e fosse altresì confuso col Rodano; c) come in Ferecide esso fosse un fiume a Nord della Grecia, e in Apollonio Rodio fosse un corso d'acqua che, fluendo da Nord, si biforca per sfociare sia in alto Adriatico che nel mar Ligure (il Rodano).  Il Grilli, considerato che in età romana la via dell'ambra andava dal Baltico ad Aquileia, propone di identificare il fiume dell'ambra con l'Isonzo, che in antico sfociava dove ora è Monfalcone.  Le isole Elettridi allora potrebbero identificarsi con l'isola di S.Antonio e con l'isola di Punta, unite attualmente alla terraferma da bonifiche, ma che in età romana chiudevano una laguna.  Del resto, nell'isola di S.Antonio esiste ancora la sorgente termale di cui parlava Plinio il Vecchio (Storia naturale II.103; 229).  Tale localizzazione spiegherebbe, secondo il Grilli, l'aggettivo "rocciosa" attribuito all'isola Elettride da Apollonio Rodio.  Il richiamo alle rocce ritorna anche in Plinio il Vecchio (XXXVII.33) il quale riferisce che: “...Scrittori più moderati - ma la cosa non è meno falsa - hanno invece riferito che nella parte più profonda del golfo Adriatico, su rocce inaccessibili, si ergono alberi che, al sorgere del Cane, secernono questa gomma (l'ambra)”.  Si tratta dunque, più che di una localizzazione geografica, della descrizione di un luogo per definizione inaccessibile, ove il controllo della veridicità della favola non potesse avvenire.
La Negroni Catacchio è favorevole all'identificazione dell'Eridano con l'Isonzo, per il fatto che si sono rinvenute quantità rilevanti di ambre in insediamenti veneti dislocati nel bacino dell'Isonzo, come S.Lucia di Tolmino o San Canziano del Carso, e nelle isole del Quarnaro, soprattutto Veglia e Cherso, popolate anticamente da Liburni.
L.Braccesi ha nuovamente studiato il problema, sottolineando la natura favolosa dell'Eridano e delle Elettridi nell'antica poesia greca e, insieme, ribadendo l'antichità dell'identificazione del fiume con il Po (per lo meno dal V secolo, quando scriveva Ferecide).  Del resto, rileva il Braccesi, le isole Elettridi possono essere state isolotti formati dai detriti del Delta padano, come si ricava dallo Pseudo-Aristotele ("dicono che il fiume Eridano abbia formato [o "ammassato"] davanti alla foce queste isole").  Una antica ubicazione padana del fiume leggendario potrebbe essere confermata dai rinvenimenti di ambre dell'età del Bronzo Finale nel basso corso del Po, a Frattesina di Fratta Polesine.  Quanto alla palude (o al lago) termale ove cadde Fetonte e dove gli alberi stillavano ambra, si dovrebbe trattare dei laghetti termali della zona di Montegrotto.  Qui, in età preromana, c'era un lago di circa 2 km2, sulle cui rive fiorì un santuario paleoveneto.  Da segnalare, fra le offerte in esso rinvenute, due perle d'ambra, un tipo di materiale che compare assai raramente nelle stipi votive paleovenete.

9) Le offerte degli Iperborei

Oltre alle saghe dedicate all'ambra sarà opportuno parlare anche dei racconti che attestano contatti fra l'Europa settentrionale e l'alto Adriatico o, più precisamente, la zona del Polesine.  Prima esamineremo la tradizione sui doni degli Iperborei al tempio di Delo, i quali giungevano attraverso l'alto Adriatico, poi quella su Eracle alle foci del Po durante le sue spedizioni nel paese degli Iperborei.  Queste tradizioni mitiche non si riferiscono direttamente all'ambra, ma attestano l'esistenza di collegamenti fra il Polesine e tutta l'area nord-adriatica con i paesi dai quali giungeva l'ambra.
Erodoto ha tramandato notizie di offerte ad Artemide che giungevano a Delo dal paese degli Iperborei, che lo storico situa oltre le terre degli Sciti e di altri popoli dell'Europa nord-orientale.  Leggiamo dunque quanto egli racconta:
“Ma assai più ampiamente di tutti parlano degli Iperborei i Delii, affermando che offerte avvolte in paglia di grano provenienti dagli Iperborei giungono in Scizia, e che dagli Sciti in poi i popoli vicini, ricevendole uno dopo l'altro, le portano verso Occidente assai lontano, fino all'Adriatico, e di là, mandate innanzi verso Mezzogiorno, primi fra i Greci le ricevono i Dodonei, e da questi scendono al golfo Maliaco e passano in Eubea, e una città le manda all'altra fino a Caristo, e dopo Caristo viene lasciata da parte Andro, chè sono i Caristii quelli che le portano a Teno, e i Teni a Delo.  Dicono dunque che in tal guisa queste sacre offerte giungono a Delo, e che la prima volta gli Iperborei mandarono a portare le offerte due fanciulle, che i Delii dicono si chiamavano Iperoche e Laodiche, e che insieme a queste per ragioni di sicurezza gli Iperborei mandarono anche come scorta cinque cittadini, quelli che ora sono chiamati Perferei e godono in Delo grandi onori.  Ma poichè gli inviati non tornavano indietro agli Iperborei, essi, ritenendo cosa assai grave se fosse sempre dovuto accadere che, inviando dei delegati, non li ricevessero più di ritorno, allora, portando ai confini le offerte sacre avvolte in paglia di grano, davano prescrizioni ai vicini raccomandando loro di mandarle innanzi dal proprio ad un altro popolo.  E narrano che queste offerte giungano a Delo mandate innanzi in tal modo, e io stesso so che si pratica un rito simile a questo che esporrò: le donne tracie e peonie, dopo aver sacrificato ad Artemide regina, offrono un sacrificio usando paglia di grano.
Queste dunque so che compiono un tale rito, mentre, in onore delle fanciulle venute dagli Iperborei e morte a Delo, le fanciulle e i fanciulli delii si recidono le chiome.  Le une, tagliandosi prima delle nozze un ricciolo, avvoltolo attorono ad un fuso, lo depongono sulla tomba - la tomba è a mano sinistra per chi entri nell'Artemision, e le sorge accanto un olivo -, mentre tutti i fanciulli delii, avvolta una ciocca di capelli attorno ad uno stelo, la depongono anch'essi sul tumulo.  Esse dunque tali onori ricevono dagli abitanti di Delo.
I Delii stessi narrano poi che anche Arge e Opi, vergini provenienti dagli Iperborei, sarebbero giunte a Delo ancor prima che Iperoche e Laodiche, facendo viaggio attraverso le stesse genti.  Queste ultime sarebbero venute per portare a Ilizia il tributo che gli Iperborei s'erano imposti in compenso del rapido parto; Arge e Opi invece dicono che vennero insieme alle divinità stesse; dicono anche che a queste vengono da loro resi onori diversi: in loro onore le donne raccolgono offerte, invocandone i nomi nell'inno che compose per loro Oleno, uomo di Licia, ed avendoli appresi da essi, gli isolani e gli Ioni invocano nei loro inni Opi ed Arge chiamandole a nome e raccogliendo offerte - questo Oleno venuto di Licia compose anche gli altri antichi inni che si cantano a Delo - e delle cose bruciate sull'altare usano la cenere gettandola sulla tomba di Opi e Arge.  La loro tomba è dentro l'Artemision, rivolta verso oriente, vicinissima alla sala da banchetto dei Cei.” (Erodoto IV.33-35)
La letteratura moderna sugli Iperborei e sui loro doni a Delo è vastissima, come sempre nei casi in cui le fonti antiche sono tanto oscure quanto suggestive.  I problemi principali sono essenzialmente due: quali erano i doni a Delo e quale il percorso che essi seguivano.  Il secondo problema è di gran lunga il più difficile e, insieme, il più interessante per il nostro tema, poichè l'itinerario dei doni doveva coincidere con la via, o con le vie dell'ambra.  Il punto di partenza della via, cioè l'Iperborea, non è possibile localizzarlo.  Si sono fatte ipotesi di ogni genere: il Nord-Europa, la zona delle sorgenti del Danubio, la Licia, la Cina, Creta e non è il caso di continuare ad aggiungere altre ipotesi, visto che se ne sa così poco.  Neppure dell'itinerario, a parte ciò che racconta Erodoto, sappiamo molto.  Il percorso doveva andare da Nord-Est verso Sud-Ovest, attraverso l'Europa centrale, fino all'alto Adriatico.  Callimaco conferma l'itinerario attestato da Erodoto, ma Pausania racconta che le offerte dalla Scizia arrivavano a Sinope, sulle coste meridionali del mar Nero, e di qui erano portate a Prasie, sulla costa orientale dell'Attica, donde gli Ateniesi le portavano a Delo.  Probabilmente questo secondo percorso era tipico dei periodi in cui Atene ebbe potere su Delo, mentre l'altro era preferito nei periodi di indipendenza dell'isola.
L'altro problema, quello della storicità e della natura delle offerte, è forse meno oscuro: gli scavi francesi nell'isola hanno messo in luce le sepolture eroiche che si credeva fossero di Opi e di Arge, di Iperoche e di Laodiche; per altro verso, le epigrafi contenenti gli inventari del tempio di Apollo riferiscono, fino al III secolo a.C., di offerte degli Iperborei e dell'accoglienza riservata a coloro che le portavano.  Dunque la realtà storica dei doni non può essere messa in dubbio, e neppure conviene dubitare della realtà storica degli Iperborei, visto che a Delo si considerava la loro esistenza e i loro doni come qualcosa di evidente e ovvio.  Inoltre si può affermare che la quasi totale assenza di menzioni dell'ambra nei molti inventarii del tempio di Apollo delio che conosciamo, rende improbabile che i doni degli Iperborei consistessero in ambra, come spesso si è creduto.  Tuttavia va detto che l'epoca in cui erano in uso i doni in ambra ai templi greci era l'epoca arcaica, quando non si tenevano inventarii, e dunque non escluderei che fra i doni degli Iperborei ci fosse stata anche l'ambra in tempi relativamente remoti.  Non sappiamo però in quale epoca, anteriore ad Erodoto, fosse iniziata la consuetudine di tali doni.  E inoltre va detto che la via dei doni iperborei doveva essere la stessa (per lo meno in certe epoche) che seguiva l'ambra diretta ai mercati mediterranei.  Quello che c'è da aggiungere sulla questione è che i doni non riguardavano tanto Apollo quanto Artemide.
Purtroppo il frammento esiodeo in cui si nominano gli Iperborei, l'Eridano e l'ambra, è molto frammentario e non abbiamo quindi la sicurezza che il poeta collegasse questi tre elementi fra loro.  Anche se il collegamento esisteva, non sappiamo se Esiodo conoscesse l'esistenza dei doni iperborei ad Artemide delia.  Pertanto non è possibile trarre la conclusione che il poeta di Ascra parlava dell'ambra e degli Iperborei perchè in età arcaica questi ultimi donavano oggetti d'ambra a Delo.  Si può invece supporre che la sua allusione al mito dell'Eridano e dell'ambra fosse collegata all'interesse dei Greci, e soprattutto di alcuni santuari greci, per l'ambra nei secoli VIII e VII.

10) Eracle alle foci del Po

I miti greci formano spesso davanti ai nostri occhi una sorta di gioco ad incastro.  Ciascun mito ha in comune parti narrative con altri miti.  Frequente è anche il riadattamento di uno schema o di un particolare narrativo da un mito ad un altro, per cui troviamo eroi diversi protagonisti di una medesima vicenda.  Già abbiamo parlato della contaminazione fra la saga delle Eliadi e quella delle Meleagridi; ora parleremo della contaminazione fra il tema delle Eliadi e quello delle Esperidi.
Ovidio (Metamorfosi II.325) narra che le Naiadi (ninfe delle acque) "Esperie" seppellirono Fetonte.  Esperie significa "dell'Esperia", cioè delle regioni occidentali, che è pure il significato di "Esperidi", il nome delle ninfe che vivevano nel giardino delle mele d'oro che Eracle riuscì a cogliere durante la sua penultima fatica.  La confusione fra le Eliadi e le Esperidi è provata dal nome di una di quest'ultime, Egle, che è pure il nome di una delle sorelle di Fetonte.  Apollonio Rodio (IV.1400 ss.) racconta che, quando gli Argonauti giunsero al loro giardino, le Esperidi stavano piangendo per la morte del drago Ladone, custode del giardino, ucciso da Eracle.  Prese da timore, esse si trasformarono in polvere e terra, ma Orfeo le convinse a riapparire; e così Espera si trasformò in pioppo, Eriteide in olmo, Egle in salice, per poi comparire, finalmente, sotto spoglie umane agli eroi greci.  Il pianto delle ninfe e la loro trasformazione in alberi (anche di pioppo) sono altri due elementi che accomunano Esperidi ed Eliadi.
Vi è anche un legame geografico fra le due leggende.  Narra infatti il mitografo Ferecide che le ninfe figlie di Zeus e di Temide, che abitavano in una grotta presso l'Eridano, suggerirono ad Eracle, che era in difficoltà, di farsi dire da Nereo dove avrebbe potuto prendere le mele d'oro".  Queste ninfe dell'Eridano, secondo lo stesso autore, erano le Esperidi stesse.
Il medesimo episodio potrebbe forse essere illustrato da una pittura vascolare etrusca ove è raffigurata la lotta di Eracle con un demone marino tricorpore e l'incontro dell'eroe con un arciere con cappello da scita.  Il giardino delle Esperidi infatti era localizzato (secondo certe versioni) nel paese degli Iperborei, e in particolare gli Etruschi amarono fantasticare su Eracle (o Hercle, come essi lo chiamavano) nel paese degli Iperborei, alla ricerca delle mele d'oro e della cerva di Cerinea.  Infatti uno specchio etrusco raffigura Eracle che sacrifica, insieme a Minerva, una capra (normale sostituto sacrificale del cervo) davanti al melo delle Esperidi, nel lontano Occidente, simboleggiato dal sole calante e dalla stella Espero.  Una pittura vascolare chiusina mostra l'eroe con la pelle di cervo sul braccio, presso un albero, in atto di donare a Giove il frutto delle Esperidi; sono raffigurati, inoltre, Apollo ed Artemide, cui era sacra la cerva.
Proprio alle foci del Po, a Contarina (Rovigo), in un'area dove vennero localizzate le isole Elettridi, è stato rinvenuto un bronzetto di Eracle (ora conservato al Museo Nazionale Archeologico di Adria), databile agli inizi del V secolo a.C., stilisticamente vicino alle figure di Ercole inserite nei sostegni di candelabri prodotti a Vulci.  In ogni caso, si tratta di un prodotto etrusco assai particolare nell'ambito delle diverse iconografie dell'eroe concepite dai Greci e dai popoli italici.  Eracle nella destra probabilmente teneva l'arco, ma la mano non è conservata; sotto l'ascella sinistra ha una faretra di tipo scitico e con la mano sinistra tiene un piccolo cervide, non ben definibile perchè la testa non è conservata.  L'eroe è ricoperto con una pelle di cervide.  Si tratta di un'iconografia alquanto inconsueta.  Un bronzetto, per certi aspetti analogo, conservato al Museo Archeologico di Firenze, raffigura Eracle con una piccola cerva in mano.  Un bronzetto dei Musei Vaticani, di schema analogo (eroe con cappello scitico e faretra sotto l'ascella) sicuramente è addobbato con una pelle di cerva.  Si tratta di un'allusione alla cattura della cerva di Cerinea, che costituì una delle dodici fatiche.  Anzi, nell'Eracle di Contarina l'allusione è forse doppia, poichè l'eroe sembra rivestito con una pelle di cervide.  Quest'ultima peculiarità non è l'ultima in questa statuetta: anche il lungo copricapo conico con punta rivolta verso l'alto è anomalo nell'iconografia di Eracle.  Si tratta di un cappello con il quale venivano di regola raffigurati dai Greci (e dai Persiani) gli arcieri sciti o cimmeri.  La spiegazione dello strano abbigliamento dell'eroe non è difficile: Pindaro, nella III ode Olimpica, racconta che Eracle portò ad Olimpia l'alloro con cui si coronavano i vincitori, dopo averlo preso nel paese degli Iperborei, alle fonti del fiume Istro.  Il poeta aggiunge che l'eroe andò in quel paese del lontano occidente quando fu costretto dal re Euristeo ad inseguire la cerva cerinite dalle corna d'oro, sacra ad Artemide.  Del resto, la contesa per la cerva fra Eracle e Apollo (spesso insieme alla sorella Artemide) fu uno dei temi preferiti dagli Etruschi entro il repertorio della mitologia eraclea.  
Secondo Erodoto (II.33), come il Nilo attraversava la Libia da Ovest ad Est, così, parallelamente, l'Istro, cioè il Danubio, attraversava tutta l'Europa fino al mar Nero, partendo dall'estremo Occidente, ove si trovava la città di Pirene.  Pirene - da cui Pirenei - era anche il nome di una donna amata da Eracle, il quale, per altro, secondo la tradizione, avrebbe avuto relazioni con donne iperboree.  E l'Iperborea si trovava, per l'appunto, presso le sorgenti dell'Istro.  L'idrografia mitica dei Greci tendeva a confondere le sorgenti dell'Istro con quelle dell'Eridano, e infatti Dionisio Periegeta (288-289), nel I secolo a.C., scriveva che dai Pirenei, in terra celtica, scaturiva l'Eridano, sulle cui rive piansero le Eliadi.Altri episodi della vita di Eracle erano ambientati nella Scizia, regione in contatto con l'Iperborea.  Erodoto (IV.8-10) narra la leggenda dell'eroe che si unì con la fanciulla-serpente Ilea, una dea scitica, dalla quale nacque Scite, capostipite degli Sciti, erede di uno dei formidabili archi del padre.  Eracle si recò in Scizia quando liberò Prometeo uccidendo l'aquila che gli rodeva il fegato.  Eschilo infatti, nel Prometeo liberato, narrava che il Titano predisse ad Eracle un lungo viaggio, attraverso le terre degli Sciti, dei Gabii, dei Liguri e degli Iperborei, fino al giardino delle Esperidi.
L'importanza accordata dagli Etruschi ai miti della cerva di Cerinea e delle Esperidi induce a credere che essi avessero assunto anche una dimensione geografica italica.  Il frammento di Ferecide ed il bronzetto di Contarina suggeriscono forse, più precisamente, una dimensione padana della leggenda di "Ercole Iperboreo".

11) Critici della mitologia

Credo che pochi miti classici siano stati presi sul serio quanto i miti dell'Eridano.  Furono soprattutto gli storici e i geografi antichi a prendere posizione contro la veridicità di ciò che i poeti avevano raccontato.  Non sappiamo fino a che punto i narratori greci e romani di miti credessero alla favole che raccontavano.  In epoche antiche, soprattutto ai tempi dei tragici del V secolo, la scarsa conoscenza della geografia alto-adriatica permetteva ai poeti di fantasticare senza tema di smentita; ma anche quando l'Italia settentrionale e il golfo di Venezia furono ben conosciuti, i poeti non rinunciarono alle loro favole.  Apollonio Rodio in età ellenistica, Ovidio in età augustea, Claudiano alla fine dell'impero sapevano benissimo di non raccontare cose vere dal punto di vista geografico, ma soltanto miti.  Ciò nonostante molti autori antichi credettero opportuno smentire le fiabe dei poeti.
È possibile che il primo esponente di questo genere di critica letteraria sia stato Ecateo di Mileto, storico e geografo degli inizi del V secolo a.C., famoso per la sua interpretazione razionalistica volta a confutare i miti greci.  Ad esempio, egli aveva negato che Gerione fosse un mostro tricipite dell'Iberia, poichè Gerione era un re della costa epirota (1, F 26 Jacoby = fr.30 Nenci).  Ecco quanto scrive a proposito del territorio di Adria (il testimone è Stefano di Bisanzio, sotto la voce Adrìa):
“Città e, presso di essa, il golfo Adriatico e il fiume omonimo, come dice Ecateo.  Il territorio è buono per le greggi, al punto che partoriscono due volte l'anno, anche con parti di due, spesso di tre o quattro capretti, qualche volta cinque o più.  Le piccole galline fanno l'uovo due volte al giorno, anche se per grandezza sono più piccole delle altre” (Ecateo, F 90 Jacoby = fr.99 Nenci).  Ora non è escluso che le galline di piccola taglia di cui parla Ecateo non fossero le famose Meleagridi, sulle quali si favoleggiava di metamorfosi e di produzione miracolosa dell'ambra.  Se è così, lo storico di Mileto banalizzava la saga delle sorelle di Meleagro attestando l'esistenza, alle foci del Po, di comuni galline, di piccola taglia, che facevano molte uova.  
Sicuramente Erodoto, storico della metà del V secolo, era fra i critici del mito:
“Quanto alle regioni estreme dell'Europa, verso Occidente, non sono in grado di parlarne con certezza: chè certamente io per me non credo che sia chiamato dai barbari Eridano un certo fiume che sbocca nel mare settentrionale, dal quale si narra che provenga l'ambra; nè so che esistano le isole Cassiteridi dalle quali ci verrebbe lo stagno.  Il primo infatti, l'Eridano, il nome stesso rivela che è greco e non barbaro, inventato da qualche poeta; d'altra parte, pur dandomene cura, non ho potuto udire nessuno che avesse constatato coi propri occhi che esiste un mare da quella parte d'Europa.  Tuttavia senza dubbio lo stagno e l'ambra ci vengono dalle più lontane regioni” (Erodoto III.115).
Uno storico rigoroso e prammatico come Polibio (II secolo a.C.) non poteva che prendere le distanze dalle favole dell'Eridano:
“Il fiume Po, celebrato dai poeti come Eridano...Gli indigeni chiamano questo fiume Bodinco.  Tralasceremo per il momento le altre leggende narrate presso i Greci intorno a questo fiume - intendo cioè il mito di Fetonte e della sua caduta, delle lacrime dei pioppi, delle vesti nere di quanti abitano i luoghi circostanti il fiume, che ancora adesso, a quanto si racconta, porterebbero il lutto in ricordo della morte di Fetonte - e tutta la materia tragica o di carattere analogo, perchè non sembra che un esame particolareggiato di essa si adatti al genere di questa introduzione” (Polibio II.16).
Parimenti, scrive il geografo Strabone:
“Del resto bisogna lasciar stare le molte altre cose favoleggiate o inventate, come quelle su Fetonte e le Eliadi trasformate in pioppi presso l'Eridano, che non esiste in nessun luogo della terra, ed è detto vicino al Po.  E le isole Elettridi davanti al Po e le galline faraone in esse” (Strabone V.1.9).
Poco tempo prima di Strabone, Diodoro Siculo (V.23.4) si rifiutava di credere alle leggende sull'Eridano, perchè sapeva che l'ambra proveniva da un'isola del mare del Nord e non dal Po.
Il più radicale fra i critici del mito fu però Plinio il Vecchio, il quale scrive quanto segue:
“Qui si offre l'occasione di svelare le menzogne dei Greci; che i miei lettori abbiano solo l'animo di pazientare, perchè anche questo è importante sapere per la nostra condotta: non tutto ciò che essi hanno raccontato merita ammirazione.  La storia di come, quando Fetonte fu colpito dal fulmine, le sue sorelle per il dolore siano state trasformate in pioppi, e di come, tutti gli anni, sulle rive del fiume Eridano, che noi chiamiamo Po, esse facciano sgorgare lacrime di electro, chiamato così perchè il Sole era comunemente detto "il Brillante"; questa storia l'hanno raccontata molti poeti, e per primi, credo, Eschilo, Filosseno, Euripide, Nicandro e Satiro.  E che sia una falsità lo testimonia la forma stessa dell'Italia.  Tra gli scrittori greci, quelli che volevano essere più precisi hanno detto che ci sono, nel mare Adriatico, certe isole Elettridi, alle quali l'ambra arriva trasportata dal Po.  È certo che non ci furono mai in quei luoghi isole con questa denominazione, nè situate in posizione tale per cui una cosa, quale che fosse, potesse esservi trasportata dal corso del Po” (XXXVII.31-32).
Plinio se la prende specialmente con Sofocle:
“Egli ha detto che l'ambra si formava, al di là dell'India, dalle lacrime versate dagli uccelli Meleagridi, piangenti per Meleagro. Che egli abbia creduto ciò, o che abbia sperato di farlo credere ad altri, chi potrebbe non stupirsene?  Quale mente infantile così ingenua si può mai trovare, la quale creda che degli uccelli piangano annualmente, o che le lacrime siano così grandi, o che quegli uccelli dalla Grecia, dove Meleagro morì, siano andati a piangere in India?  E dunque?  Non raccontano i poeti tante storie ugualmente favolose?  Certo; ma che uno dica seriamente una cosa simile a proposito di una sostanza come questa, che si importa tutti i giorni ed è tanto diffusa, smaschera la menzogna, e il massimo insulto per l'umanità e un'intollerabile mancanza di ritegno nel mentire” (Plinio XXXVII.40-41).
Plinio aveva toccato uno dei temi per i quali le leggende dell'Eridano erano stimate degne di confutazione da parte di storici ed eruditi: quello del commercio dell'ambra, il quale realmente interessava le coste alto-adriatiche.
Con uno spirito diverso, anche Luciano di Samosata si schierò fra i critici del mito.  Nel suo LV Dialogo, intitolato Circa l'ambra, ovvero i cigni, egli racconta il seguente aneddoto relativo ad un viaggio sul Po.
“Certamente anche voi credeste alla favola, secondo cui l'ambra stilla da alcuni pioppi che sul fiume Eridano piangono Fetonte, e quei pioppi erano le sorelle di Fetonte, le quali per il gran lacrimare sul giovanetto furono mutate poi in quegli alberi, da cui ancora goccia il loro pianto, che è l'ambra.  Veramente anch'io udendo raccontar queste cose dai poeti, speravo, se mai capitassi sull'Eridano, di andare sotto uno dei pioppi, ed aprendo il seno della veste raccogliere poche lacrime, e così avere l'ambra.  Finalmente non è molto, ma per un'altra faccenda, capitai in quella contrada, e risalendo in barca l'Eridano, non ci vedevo pioppi, per guardare che io facessi d'ogn'intorno, nè ambra; anzi neppure il nome di Fetonte sapevano quei paesani.  Infatti io mi volli informare, e domandai: "Quando verremo a quei pioppi che danno l'ambra?"  Mi risero in faccia i barcaioli, e risposero dicessi più chiaro ciò che volevo.  Ed io raccontai loro la favola, come Fetonte era un figliolo del Sole, che, fattosi grandicello chiese al padre di guidare il carro, per fare anch'egli una sola giornata; il padre glielo diede; ma egli si ribaltò e morì; e le sorelle sue piangenti in qualche luogo di questi - dicevo io - perch'egli cadde sull'Eridano, diventarono pioppi, e piangono l'ambra sopra di lui.  "Qual bugiardo e carotaio ti ha raccontato questo?" risposero. "Noi non vedemmo mai alcun cocchiere ribaltato, nè abbiamo i pioppi che tu dici.  Se fosse una cosa simile, credi tu che noi per due oboli vorremmo remare, o tirar le barche contr'acqua, potendo arricchirci col raccogliere le lacrime dei pioppi?"
Queste parole mi colpirono forte; e tacqui scornato, chè proprio come un fanciullo c'ero caduto, a credere ai poeti che dicono le più sperticate bugie, e non mai una verità.  Ora fallitami quest'ultima speranza non piccola, mi affliggevo come se l'ambra mi fosse proprio sfuggita dalle mani; perchè già io avevo immaginato quali e quanti usi ne dovevo fare.  Ma un'altra cosa credevo sì davvero di trovarcela: molti cigni cantanti sulle rive del fiume; e di nuovo domandai ai barcaioli, chè si rimontava ancora: "E i cigni a quale ora cantano quel melodioso canto, stando sulle sponde del fiume di qua e di là?  Si dice che essi furono uomini, compagni d'Apollo, e bravi cantatori, e che in questi luoghi furono mutati in uccelli, e perciò cantano ancora non dimentichi della musica."  E quelli con un'altra risata mi risposero: "Oggi, o galantuomo, non la finirai di dire fandonie contro il nostro paese ed il fiume?  Noi che andiam sempre sull'acqua, e che da fanciulli facciamo il mestiere sull'Eridano, di rado vediamo pochi cigni nei greti del fiume, ma fanno un po' di gracchiare sì scordato e sottile, che i corvi e le cornacchie sono sirene di fronte ad essi; cantare dolce, e come l'hai detto tu, nemmeno per sogno l'abbiamo udito: e però ci fa meraviglia come nei paesi vostri corrano queste ciance su di noi.” 

12) La vera origine dell'ambra

Gran parte di ciò che sappiamo circa le cognizioni degli antichi sull'ambra risale ad un brano del XXXVII libro della Storia naturale di Plinio.  Riferisce lo scienziato romano che “secondo Pitea, i Guioni, popolazione della Germania, abitavano le sponde di un estuario dell'Oceano di nome Metuonide per un'estensione di 6.000 stadi; a un giorno di navigazione si trovava l'isola di Abalo, dove, egli afferma, durante la primavera l'ambra veniva trasportata dalle correnti, ed era una secrezione del mare congelato; gli abitanti se ne servivano come legna per il fuoco e la vendevano ai vicini Teutoni.  L'opinione di Plinio è condivisa anche da Timeo, che però ha chiamato l'isola Basilia.  Filemone ha negato che dall'ambra si produca la fiamma.  Nicia ha voluto spiegarla come una secrezione dei raggi del sole: quando al tramonto questi sono diretti sulla terra in modo più violento, lascerebbero in essa un umore denso che poi dai flutti dell'Oceano sarebbe spinto sulle coste della Germania.”
Pitea di Marsiglia compì un celebre viaggio nel mare del Nord verso la fine del IV secolo a.C. e fu il primo, o uno dei primi greci ad appurare la verità sull'origine dell'ambra.  Timeo era di poco posteriore a Pitea, ed accettò la medesima teoria; per Diodoro Siculo (V.23.1), che dipende da Timeo, l'ambra era portata dal mare sulle sponde di un'isola detta Basìleia, situata di fronte alle terre degli Sciti; Filemone, geografo del I secolo d.C., a detta dello stesso Plinio(XXXVII.33), affermava pure che l'ambra si estraeva in due località della Scizia (corrispondente, all'incirca, all'odierna Russia europea), ove era chiamata electrum e sualiternicum.  Più oltre, Plinio (XXXVII.40) riferisce che Senocrate, filosofo della prima età ellenistica, parlava dell'ambra in relazione alla Scizia, ove essa era detta sacrium.  
Un commentatore delle Georgiche di Virgilio riferisce che secondo Ctesia l'Eridano si trovava in India e secondo Ione in Acaia, mentre per Cherilo si trovava in Germania, e in questa regione sarebbe morto Fetonte. Dunque anche secondo Cherilo la ricerca del fiume dell'ambra doveva guardare verso Settentrione.
Plinio stesso espone (XXXVII.42-46) le sue cognizioni in materia, in questi termini: “È certo che l'ambra si genera nelle isole dell'Oceano settentrionale e che dai Germani è chiamata gleso, ed è per questo che anche i nostri compatrioti hanno chiamato Glesaria una di queste isole, quando Germanico Cesare conduceva colà operazioni con la flotta; i barbari la chiamano Austeravia.  Si forma, l'ambra, dal midollo che stilla da un tipo di pino, come la gomma dai ciliegi o la resina dai pini fuoriesce per eccesso di liquido.  Si solidifica per il gelo o per le condizioni atmosferiche o per effetto del mare, quando le onde agitandosi la strappano dalle isole.  Allora, come che sia, è rigettata sulle rive, ed è trasportata così facilmente che sembra restar sospesa e non calare a fondo.  Che si trattasse del succo di un albero lo credettero anche i nostri antenati, che perciò la chiamarono succinum.  Che poi l'albero sia un tipo di pino lo indica l'odore di pino che l'ambra produce se la si strofina e il fatto che, ad accenderla, brucia allo stesso modo e con le esalazioni di una torcia resinosa.  I Germani la portano soprattutto dalla provincia di Pannonia e di là per primi i Veneti, che i Greci hanno chiamato Eneti, ne diffusero la fama, vicini com'erano alla Pannonia e vivendo attorno al mare Adriatico.  La storia è certo associata al Po per una ragione evidente: ancora oggi le contadine transpadane portano oggetti d'ambra a mo' di monili, soprattutto per ornamento, ma anche per le sue proprietà medicinali; si crede infatti che l'ambra sia efficace contro le tonsilliti e le malattie della gola, perchè la natura delle acque in prossimità delle Alpi provoca infezioni di vario tipo alla gola degli uomini.  La distanza da Carnuntum, in Pannonia, alle coste della Germania, da dove si importa l'ambra, è di circa 600 miglia: il fatto è stato accertato da poco, ed è ancora vivo il cavaliere romano inviato a procurarsela da Giuliano, quando questi fu incaricato di curare lo spettacolo di gladiatori dato dall'imperatore Nerone.  Egli attraversò i mercati e le coste e ne riportò una quantità così grande che le reti protettive, che tenevano lontane le fiere dal podio, erano annodate con pezzi d'ambra, e inoltre le armi e le barelle e tutto l'apparato di ciascun giorno (dal momento che lo sfarzoso allestimento ogni giorno cambiava) erano ornati d'ambra.  Il blocco maggiore che egli riportò era del peso di 13 libbre.”
Tacito (Germania 45), per parte sua, attesta che il popolo degli Aestii esplorava il mare Suevo alla ricerca dell'ambra, chiamata nella loro lingua "glaesum".

Parte seconda. Storia e archeologia
forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco,
d'avorio; e così esisti!
(E.Montale, Dora Markus, da Le Occasioni)


13) L'età micenea

Dallo studio delle fonti risulta che presso gli antichi esistevano due tendenze: da una parte, poeti e mitografi proponevano localizzazioni geografiche (vaghe o precise) dell'Eridano e dello scenario dei miti ad esso legati, dall'altra, autori più razionali negavano la validità di tali localizzazioni.  Ne nacque un filone letterario fra i più ricchi di varianti.  Ma dietro tale vasta produzione di miti c'era una qualche realtà storica?  Possiamo dire che certamente i miti erano nati per spiegare l'origine dell'ambra, una sostanza preziosa che era realmente commerciata, lavorata e usata presso le popolazioni della Grecia e dell'Italia.  Si trattava di spiegare due fenomeni che oltrepassavano le capacità di indagine dei Greci: che cosa fosse l'ambra e da quali regioni provenisse.  Erodoto (III.115), come abbiamo visto, sapeva che la sostanza veniva da regioni lontanissime, che egli stesso non conosceva.  Pertanto risulta che dietro la produzione mitopoietica stava un fatto storico concreto: il commercio dell'ambra.  In teoria, sarebbe possibile studiare le fasi di tale produzione e la nascita delle sue varianti in relazione con le fasi del commercio dell'ambra; era infatti il modo in cui i Greci venivano a conoscere l'ambra che stimolava e, in parte, condizionava la creazione dei miti.
Attraverso le fonti letterarie possiamo risalire, al massimo, fino all'epoca di Esiodo (ca.VIII secolo a.C.), se è veramente esiodeo, e non apocrifo, il frammento del Catalogo in cui si nominano l'ambra e l'Eridano subito dopo avere parlato degli Iperborei.  Gli Iperborei erano un popolo leggendario dell'Europa settentrionale (vivevano "oltre Borea", il vento del Nord), e pertanto Esiodo sembra concordare con Erodoto, il quale conosce la tradizione secondo cui l'Eridano sfocia nell'Europa settentrionale.  Difficilmente Esiodo, il poeta che visse tra le colline di Ascra in Beozia, si riferiva ad un fiume preciso, mentre è probabile che egli pensasse genericamente ai confini della terra abitata.  L'orientamento settentrionale rispecchiava però la realtà storica della provenienza dell'ambra dalle coste del mar Baltico e pertanto si può credere che Esiodo e altri autori fossero consapevoli dell'origine nordica dell'ambra.
A quale fase storica del commercio dell'ambra si possono collegare le prime notizie sull'Eridano e la più antica mitologia ad esso relativa?  Se ammettiamo che il frammento del Catalogo risalisse all'età arcaica, si aprono allora due possibilità: la leggenda fiorì in relazione al commercio fiorito nell'età del Tardo Bronzo egeo, oppure in relazione agli scambi dell'epoca del Ferro.
Nella primissima fase dell'età micenea (XVI secolo), i signori di Micene importavano quantità considerevoli di ambra: si pensi che nella sola tomba IV del circolo sepolcrale A di Micene, Schliemann rinvenne ben 1290 grani d'ambra.  In questo periodo veniva importato anche un particolare tipo di "distanziatori" ornamentali dotati di molti fori, anche intersecantisi.  Simili reperti caratterizzano anche la II fase micenea.  Essi trovano confronti molto precisi con placchette traforate analogamente ritrovate nell'area della cultura del Wessex (Inghilterra meridionale), nella Germania meridionale e in Alsazia.  Si è pensato che si trattasse di oggetti importati dall'Inghilterra in Grecia, oppure che dall'Europa centrale fossero stati esportati sia in Inghilterra che in Grecia.  Collane ed altri gioielli d'ambra furono usati durante tutta l'epoca micenea, specialmente nella sua terza fase.  
Vi è una categoria di vaghi d'ambra, caratteristica del Miceneo III C, del Submiceneo (tra il 1150 e il 1050 ca.) e forse della primissima fase protogeometrica, che fu commerciata sia in Italia che in area greca: si tratta dei cosiddetti "grani ad astragalo", lavorati in forma di tamburo carenato al centro, con foro pervio e forme allungate o schiacciate.
Queste ambre sono dette anche "tipo tesoro di Tirinto", perchè ne sono state rinvenute parecchie, montate in oro, a crociera, su ruote di filo d'oro (fig.6-7), entro un ripostiglio di oggetti preziosi rinvenuto a Tirinto,  databile tra la fine dell'età del Bronzo e gli inizi dell'epoca successiva.  Ambre simili vengono dall'antro Dicteo di Creta, da una sepoltura di Tisbe di Beozia, dalla necropoli rodia di Ialiso e dalle necropoli di Cefallonia (Metaxata e Diakata) e di Salamina.  Grani ad astragalo sono stati rinvenuti anche in ambiti non micenei, ma collegati con il mondo miceneo, e, in particolare, a Ugarit, in Canahan, prima della distruzione del 1191 a.C., e nel nuraghe sardo Attentu (Sassari).  Inoltre abbiamo attestazioni da due tombe liburniche presso Nin (Zara)(fig.8-9), databili intorno al X secolo a.C..  In contesti protovillanoviani si sono trovate ambre di questo genere nella necropoli liparese di Piazza Monfalcone, e in quelle di Ponte S.Pietro (presso Ischia di Castro), di Allumiere, di Borgo Panigale (Bologna) e di Bismantova, in Emilia.  Se ne sono ritrovati esemplari nella zona dell'abitato e della necropoli di Frattesina di Fratta Polesine (Rovigo)(tav.I.1).  Per finire, un altro elemento "tipo Tirinto" proviene da Coppa Nevigata, presso Manfredonia, uno dalle coste pugliesi settentrionali, ed uno dalla necropoli di Populonia (databile all'età del Ferro).
























Fig. 6-7: Museo Nazionale di Atene. Grani d'ambra montati su fili d'oro dal tesoro di Tirinto
















Fig.8-11: grani d'ambra ad astragalo da Nin (loc.Vrsi e Privlaka) e da Legnago, Fondo Paviani (i due a destra).

La leggenda dell'Eridano, fiume dell'ambra, nota ad Esiodo, ha dunque probabilità di essere stata concepita durante l'ultima fase dell'età micenea, quando i Greci acquistavano ed utilizzavano la sostanza proveniente dal Nord.    
Generalmente si ritiene che i grani "tipo Tirinto" fossero stati esportati dall'area greca verso l'Italia e verso gli altri siti ove sono stati ritrovati.  Indubbiamente, materiali micenei si sono rinvenuti in tutti, o quasi, i luoghi da dove provengono le ambre ad astragalo.  Tuttavia va seriamente preso in considerazione anche il percorso inverso: dall'Italia verso la Grecia.  A questo proposito, sarà opportuno sottolineare alcuni aspetti della stazione padana di Frattesina di Fratta Polesine, dalla quale proviene una notevole concentrazione di grani "tipo Tirinto".  Essa consisteva in un esteso insediamento (ca.9 ettari) sviluppatosi durante il Bronzo Finale, tra l'XI e il X secolo; quivi fiorirono attività artigianali su larga scala, quali la lavorazione dell'osso, del corno, del bronzo, della ceramica e, in particolare, del vetro.  Il ritrovamento di parecchi fondi di crogiolo e di vetri in via di lavorazione, di svariati colori, documenta la produzione di paste vitree in loco, delle quali a Frattesina si sono ritrovati molti esemplari in forma di vaghi di collana.  Ora, grani di pasta vitrea apparentemente uguali sono stati rinvenuti a Lipari, Piazza Monfalcone, a Bismantova [e a Osteria dell'Osa (Roma)], in associazione con numerose perle d'ambra ad astragalo, e il fatto ha indotto a sospettare un'importazione delle perle vitree liparesi da Frattesina.  Per altro verso, la tipologia di molte altre classi di materiali di Frattesina trova precisi raffronti sia presso altre stazioni del Bronzo Finale italiano, sia in coevi insediamenti egei.  In particolare, fibule con arco formato da cappii ad 8, simili a quelle di Frattesina, sono state ritrovate in località dalle quali provengono anche grani ad astragalo: l'antro Dicteo e la necropoli di Diakata a Cefallonia.
Per tornare all'ambra, si ritiene che una delle principali vie attraverso le quali questa sostanza raggiungeva i mercati greci ed italici passasse per l'alto Adriatico.  Se questo è vero, si do-vrebbe supporre che gli abitatori del Delta padano avessero avuto modo di rifornirsi d'ambra direttamente, senza la mediazione micenea; ed in effetti una comunità di artigiani attivi ed esperti come quella di Frattesina non aveva certo bisogno di servirsi delle manifatture egee per realizzare oggetti semplici come i vaghi d'ambra "tipo Tirinto".  In un insediamento coevo e prossimo a quello di Frattesina, a Legnago, Fondo Paviani, si sono rinvenuti due grani d'ambra ad astragalo (fig.10-11) e un frammento d'ambra in fase di lavorazione; pertanto è probabile che questo materiale fosse lavorato nelle stazioni protovillanoviane del basso Po.
Tuttavia un fatto si oppone all'ipotesi di una fabbricazione esclusivamente polesana dei grani ad astragalo: in ambito egeo e cananeo tale classe di oggetti è attestata almeno dagli inizi del XII secolo, mentre la fioritura di Frattesina sembra iniziare circa un secolo dopo.  I grani ad astragalo di Fondo Paviani provengono da uno strato della fine del XII secolo.  In ogni caso, le ambre in esame si diffondono contemporaneamente alla fioritura della cultura protovillanoviana italica, dal cui sviluppo esse non sono separabili.
L'ambra nella tarda età del Bronzo è dunque un importante strumento per comprendere la natura degli scambi fra l'Italia e il Mediterraneo orientale.  Del resto, la lavorazione locale del vetro a Frattesina presuppone contatti con vetrai orientali, che introdussero quest'arte nel mondo protovillanoviano; così pure dicasi per la presenza di reperti in avorio e di frammenti di uova di struzzo.  Recentemente il rinvenimento di una nave mercantile (cananea? cipriota?) della fine del XIV-inizi XIII sec.a.C. a Ulu Burun, al largo di Kaß/, sulla costa meridionale dell'Asia Minore, ha gettato nuova luce sulla natura delle merci che venivano scambiate in età micenea.  Fra gli abbondantissimi e vari reperti figurano circa due dozzine di lingotti di vetro blu (destinato ad essere fuso e lavorato), perle vitree, zanne di elefante, uova di struzzo e grani d'ambra (baltica).  Dunque la varietà dei materiali esotici di Frattesina, che si ritrova, quasi tre secoli prima, nel relitto di Ulu Burun, sta a testimoniare l'ultima fase di questo genere di scambi nell'età del Bronzo.

14) L'età arcaica

Prima di Esiodo, come si è visto, è probabile che fosse nata la tradizione sull'ambra e l'Eridano.  Ma non è detto che la saga di Fetonte debba risalire ad epoche molto remote.  È probabile infatti che una elaborazione della leggenda fosse stata concepita all'epoca in cui i Greci ripresero a frequentare l'Adriatico, in particolare la sua parte meridionale, circa nei secoli VIII-VII a.C., grazie alla colonizzazione corinzia e corcirese, nonchè agli scambi economici promossi dai Focei e da altri Greci d'Asia Minore.
Eumelo di Corinto, poeta dell'VIII secolo, sostenne che Apsirto, figlio di Eeta, fratello di Medea e nipote di Helios, era detto Fetonte.  Corinto divenne sede di molti miti legati alla figura di Helios e soprattutto di Medea, basti pensare alla Medea di Euripide ambientata a Corinto.  Pausania (II.3.2) testimonia che sui Propilei di Corinto erano raffigurate le quadrighe di Helios e di Fetonte.  È dunque più che probabile che un qualche ruolo nell'elaborazione dei miti solari adriatici fosse stato svolto dai Corinzi, che fondarono sulle coste ioniche e basso-adriatiche molte colonie, fra le quali Corcira (Corfù), Leucade, Anactorio, Ambracia, Apollonia, Epidamno (la quale ebbe coloni corciresi guidati da un nobile corinzio).
Ma il culto ed il mito eliaco erano di casa anche a Rodi e a Cos.  Già Ellanico faceva di Fetonte il figlio di Helios e della ninfa Rhodos.  Diodoro Siculo (V.56 ss.) riferisce che, secondo Zenone di Rodi, Rhodos era figlia di Afrodite e che tra i figli di Rhodos c'erano Electrione (il cui nome ha a che fare forse con elektron) e Tenages, che "i Greci chiamano Fetonte", il quale fu ucciso dai fratelli.  A Cos era situata la sede di Merope, mentre sappiamo che per Euripide Merope era il patrigno di Fetonte e che per Igino Merope ne era la madre.  
Non è pertanto da escludere un ruolo nella genesi del mito anche da parte dei Rodii e dei Coî, ai quali Strabone (XIV.2.10) attribuisce la fondazione di un'antichissima colonia sulle coste della Daunia, Elpie, sulla cui storicità sono stati però avanzati recentemente seri dubbi.  In ogni caso, è certo che i Greci d'Asia Minore frequentarono l'Adriatico intorno al VI secolo.
È possibile che anche in questo caso l'elaborazione della leggenda fosse legata ad un interesse dei Greci per l'ambra.  Tra la fase submicenea e l'VIII secolo l'uso di ambra nel mondo greco sembra essere stato assai limitato, mentre nella fase successiva, tra il Geometrico recente e l'epoca orientalizzante, risulta che ci fu una ripresa delle importazioni, connessa anche con la realizzazione di gioielli in oro o avorio e ambra.  Ma verso la fine del VII secolo l'interesse dei Greci per questa materia preziosa sembra diminuire notevolmente.  
Tutto sommato, dunque, l'ipotesi di una genesi corinzia dei miti eliaci corrisponderebbe bene sia con la fase arcaica del rinnovato interesse greco per l'ambra, sia con la cronologia della fondazione delle principali colonie corinzie in area ionico-adriatica, vale a dire la fine dell'VIII secolo e tutto il VII.  Inoltre la possibile influenza di temi mitologici orientali nella saga di Fetonte (cf. § 4) potrebbe agevolmente spiegarsi all'interno della cultura corinzia arcaica, aperta alle suggestioni artistiche dell'Oriente, con il quale intratteneva rapporti commerciali.  Ma altrettanto si potrebbe dire di Rodi.  Nel prossimo paragrafo, del resto, si vedrà come gli artigiani orientali avessero avuto un notevole ruolo anche nello sviluppo della scultura in ambra in Grecia e nell'Italia centrale.  
In contesti protogeometrici non si trova pressochè mai ambra.  Circa i secoli VIII e VII si ritrovano ambre in Macedonia, a Chauchitsa e Bohemitsa, nella penisola Calcidica, presso Cnosso a Creta, ad Atene ed Eleusi; 46 pezzi (tra i quali due figurine di animali) più molti frammenti ad Aetòs di Itaca (VIII e soprattutto VII secolo), 54 pezzi (tra cui dei sigilli intagliati) a Perachora, presso Corinto, negli scavi di un santuario di Hera Limenaia (VIII-VII secolo), 16 elementi a Chio, presso il tempio di Apollo a Kato Phana, 22 elementi (fra i quali una piccola scimmia, databile al VII secolo; fig.13) nel deposito del tempio (inizi VII secolo - fine VI a.C.), forse dedicato ad Artemide (o ad Hera), a Emporio, sempre a Chio; 212 pezzi (tra i quali due figurine di leone e una rozza testa umana) a Lindos, Rodi.  Inoltre una cinquantina di ambre del VII secolo (tra le quali una raffigura una pecora in riposo) proviene dal tempio di Artemide Orthia, a Sparta (fig.12), due grani dal deposito sacro del tempio di Artemide a Delo, deposito contenente per lo più oggetti d'età micenea, ma anche materiali più tardi, fino al periodo geometrico; e inoltre, sempre a Delo due grani sono stati trovati ad Ovest del tempio di Artemide; altrettanti ed uno "scaraboide" presso il tempio di Hera; circa 650 ambre (tra le quali una statuina femminile, tre scarabei, pendagli ad aryballos - o a bulla che dir si voglia - elementi a Z e due testine umane) di VIII secolo provengono da un deposito sacro nell'area della cella del tempio di Artemide a Efeso (inizi VIII- metà VII secolo a.C.)(tav.I.2); tre elementi in ambra (VI secolo ca.) dal santuario di Artemide a Cirene.  Numerosi grani d'ambra (ca. VII secolo), oltre ad elementi incastonati in oggetti eburnei, sono stati rinvenuti nel tempio di Atena a Siracusa.
Da questa panoramica emerge subito un dato: l'ambra d'età arcaica si ritrova nei corredi funerari e, soprattutto, nei santuari.  Anton Bammer, che recentemente ha rinvenuto quasi 500 elementi d'ambra nell'Artemision di Efeso, pensa che essi avessero costituito il pettorale della prima statua di culto della dea.  Nella Grecia arcaica dunque l'ambra era specialmente sacra ad Artemide.
















Fig.12:  fibula a occhiali d'avorio con sedi per castoni d'ambra dal santuario di Artemis Orthìa (da Dawkins)
Fig.13 scimmietta in ambra da Chio, loc. Emporio (da Boardman)
Nel capitolo dedicato ai doni iperborei ad Artemide delia si era detto che nell'epoca in cui questa prassi devozionale è attestata (dal V secolo all'ellenismo) non risulta giungessero a Delo offerte di ambra.  Visto però che in età arcaica erano in uso le offerte di questo materiale nei templi, e in particolare negli Artemisii, ci si potrebbe chiedere se gli oggetti votivi in ambra fossero stati "offerte iperboree".  La cosa è indimostrabile, ma, in ogni caso, esse costituivano doni di una sostanza esotica e preziosa, proveniente dal lontano Nord, i quali potevano prefigurare i doni iperborei ad Artemide delia.



15) L'ambra in Italia durante l'età arcaica

A proposito dell'ambra nell'Italia arcaica sarà utile discutere di alcuni problemi di carattere generale.  In primo luogo, si noterà che i principali artefici di monili e sculture in ambra nella Penisola furono gli Etruschi e i Greci.  Senza dubbio i primi furono i maggiori importatori del materiale e realizzarono la maggior parte dei monili in ambra, mentre i secondi giocarono un ruolo rilevante nell'Italia meridionale e nel Piceno.  











Fig.14: leone in ambra
da Pratica di Mare,                   Fig.15-16: cavallino e scimmietta 
tomba LXII (da Civiltà del                       in ambra da Veio, tomba
Lazio primitivo)                                           HH (da Batchwarowa)

Nel IX secolo e agli inizi del VIII le ambre in Italia sono molto rare, mentre esse cominciano ad essere maggiormente attestate nei corredi dell'VIII secolo.  Il VII fu il secolo della maggiore diffusione dell'ambra lavorata in tutta la Penisola italica; nel VI questo materiale continua a godere di un grande favore.  Si tratta dell'epoca delle aristocrazie, quando presso le società etrusche, laziali, venete, picene, enotrie...emergono alcune famiglie, grazie all'accaparramento di ricchezze inimmaginabili nei tempi anteriori (secoli IX e VIII).  All'interno delle necropoli di questo periodo, infatti, vi sono alcune sepolture nelle quali è evidente lo sfoggio di un'enorme ricchezza.  È la fase di trapasso dall'arte geometrica all'orientalizzante, ed è appunto nel contesto dell'arte orientalizzante che fioriscono le più importanti produzioni di ambre arcaiche.  Si hanno, oltre che pendenti di collana, cilindri o dischi da infilare sull'arco delle fibule, sculture raffiguranti figure umane o animali, talora gruppi di due soggetti analoghi attaccati per le spalle o affiancati (cf. tav.II.4).  












Fig.17-18 figura femminile e pesce in ambra da Vetulonia, Circolo dei Monili (da Falchi)

In ambito etrusco abbondano le sculture e i gioielli in ambra soprattutto a Veio (fig.15-16), Vetulonia (fig.17-18) - che era probabilmente anche un centro di produzione di tali manufatti - Marsiliana d'Albegna, Bologna e Verucchio (tav.II.3), in Romagna.  La necropoli di Verucchio ha restituito in quantità straordinaria collane e orecchini d'ambra e fibule, talora enormi, con castoni dello stesso materiale.  Nel Lazio si segnalano le falische Narce e Falerii, le latine Satricum (tav.II.4), Praeneste (fig.20-21), Pratica di Mare (Lavinio) (fig.14), La Rustica e Castel di Decima.  In queste località le ambre provengono da contesti funerari, mentre a Roma si sono rinvenute ambre nell'area sacra di S.Omobono, dove sorgevano i templi di Mater Matuta e di Fortuna.  Nell'area veneta si segnalano soprattutto le ambre di Este e di Padova (tav.II.5,III.6).  Straordinaria è l'abbondanza di ambre nelle necropoli picene tra l'VIII e il VI secolo a.C., e in particolare a Castelbellino, Numana, Monte Giorgio, Belmonte, Novilara (fig.23).  Frequenti sono i monili d'ambra nelle necropoli dell'Italia meridionale, soprattutto nel VII secolo, e in particolare a Cuma e Calatia, Sala Consilina (Campania), Francavilla Marittima (Calabria, presso Sibari), nelle necropoli indigene della Basilicata: ad Alianello e a Chiaromonte.
Sicuramente molte delle ambre centro- e nord-italiche sono di produzione etrusca.  Infatti i gruppi di personaggi o di animali accoppiati (Satricum, Castelbellino) trovano confronti puntuali nelle sculture in legno trovate a Verucchio, di produzione locale, e in sculture bronzee di soggetto analogo provenienti da tutta l'area etrusca.  Gli elementi a forma di pesce, ritrovati a Vetulonia, Bologna e Padova, furono realizzati in Italia, da Etruschi e forse anche da Veneti.  Sculture raffiguranti piccoli animali - in prevalenza cani - provengono da Satricum, da Narce, da Bologna e da Vulci.  
I problemi di attribuzione a un'area culturale piuttosto che ad un'altra emergono quando si hanno oggetti simili rinvenuti in luoghi geograficamente molto lontani uno dall'altro.  Ad esempio, si ha un cavallino in ambra da Veio (VIII secolo, fig.15) e uno montato su fibula, quasi coevo (VIII secolo), da Vrebac, in Croazia (fig.27)  Si hanno orecchini discoidali d'ambra forati al centro, con profilo carenato e centro depresso, sia a Verucchio, sia nelle necropoli del Piceno, sia in quelle dell'area liburnica e iapodica (Croazia, Slovenia meridionale), sia in Basilicata.
  Si direbbe che le culture adriatiche siano state responsabili della diffusione di quest'ultima categoria di ambre, come pure della diffusione delle fibule con arco ingrossato da un elemento in ambra.  Accanto ai manufatti locali vi sono parecchie classi di ambre intagliate di produzione orientale, o, in ogni caso, uscite da botteghe di artigiani orientali dislocate in Etruria o in altri siti del Mediterraneo che non siamo in grado di localizzare, e ci sono classi di ambre ispirate a modelli orientali.
















Fig.19: Museo Nazionale di Villa Giu-lia; animalino in ambra da Satricum







































Fig.20-21: Museo Naz.di Villa Giulia, figurina femminile e scimmiette in ambra da Praeneste - Fig.22: animalino in ambra da Vulci (antiquariato)

















Fig.23: Fibula con elemento in ambra dalla  tomba 12 di Novilara (da Brizio)

Si tratta prevalentemente di oggettini portafortuna di piccole dimensioni, che di norma si sono ritrovati in associazione con oggetti egiziani o fenici.  Una classe di ambre che accomuna il mondo greco e quello italico è quella degli scarabei e dei sigilli di tradizione egiziana, spesso con figure di cavallini incise, presenti sia a Perachora ed Efeso che a Vetulonia, Veio, Populonia, Narce, Satricum, Bisenzio e Belmonte Piceno.  









































Fig.24: Boston, Museum of Fine Arts, statua in ambra (cm.24,3, pettorale in oro) di un re assiro (foto del Museum of Fine Arts)
Considerato il gran numero di sigilli rinvenuti a Perachora (Corinto), si potrebbe supporre che artigiani corinzi avessero operato anche in Italia centrale, dando luogo ad una scuola orientalizzante etrusco-corinzia di scarabei in ambra, un po' come avvenne nel caso della ceramica etrusco-corinzia.  Viste anche le aree di distribuzione, è probabile che gli scarabei in ambra trovati in Italia centrale fossero stati prodotti in Etruria.  
Piccole sculture di scimmie provengono da Praeneste (fig.20-21), Veio, Vetulonia (fig.17, 25-26), Marsiliana, Narce, Falerii, Satricum, Pratica di Mare e Belmonte Piceno; di queste molte possono essere considerate prodotti locali di imitazione, ma non escludo che qualcuna possa essere stata prodotta da officine orientali o greche orientalizzanti.  Una scimmietta uguale a quella di Praeneste proviene da Chio (fig.13), una dello stesso genere, in avorio, dal tempio di Artemide Orthìa a Sparta.  











Fig.25-26: scimmia e figura umana in ambra da Vetulonia, Circolo dei Monili (da Falchi)

In ogni caso si tratta di amuleti realizzati da artigiani educati all'arte orientale, operanti in un centro in contatto sia con l'Etruria che con la Ionia.  Nel VII secolo botteghe orientali producevano per le aristocrazie laziali bassorilievi raffiguranti teste di leone in avorio con occhi d'ambra, rilievi egittizzanti in avorio con incrostazioni d'ambra e trombe realizzate con zanne di elefante intarsiate con triangoli d'ambra; nel VI secolo artigiani orientalizzanti realizzarono teste di leone d'avorio con occhi d'ambra per le aristocrazie scitiche.
L'arte delle ambre scolpite dei secoli VIII-VI fiorisce, sia nel mondo greco che in quello italico, nell'ambito dell'arte orientalizzante.  La più antica scultura in ambra (IX secolo) è stata rinvenuta in Siria, e raffigura un re assiro (Assurnasirpal?) (fig.24).  

















Fig.27: Museo Nazionale di Zagabria, cavallino in ambra montato su fibula, da Vrebac (Croazia) 






































Fig.28: Museo di Stuttgart, sfinge in avorio con maschera in ambra da Grafenbühl
Fig.29: Museo Naz. di Ancona, statuetta di dea alata in avorio con maschera in ambra da Belmonte Piceno (disegno ricostruttivo, da Marconi)
Del resto, già Omero (Odissea XV.459) accenna ad un mercante fenicio che aveva da vendere una collana d'oro e ambra.  Grazie alla maggiore vicinanza al mar Baltico, fu in Grecia e in Italia, non in Oriente, che fiorì l'arte dell'ambra scolpita.  Tale arte prosperò ad opera degli scultori dell'avorio.  
Non a caso i rinvenimenti di intagli arcaici in ambra sono spesso associati a sculture eburnee, e furono prodotti intagli del medesimo genere utilizzando sia l'uno che l'altro materiale, vale a dire che si sono trovate classi di oggetti dello stesso tipo (pendagli ad aryballos, piccole sculture di leoni, scimmie o pecore...) realizzati sia in ambra, sia in avorio; infine, è testimoniato in età arcaica (fino alla prima metà del VI secolo) l'utilizzo delle due materie preziose entro un medesimo oggetto (in particolare in fibule (fig.12) o piccole sculture).  
Gli intagli in avorio di fattura orientale si diffusero dall'VIII secolo in Grecia, e dalla stessa epoca cominciarono ad operare in Grecia scuole locali di intagliatori di avorio; esse producevano oggetti vari: statuette, sigilli rotondi o scaraboidi, figure di leone, pendenti ad aryballos, che furono eseguiti anche in ambra nello stesso stile.  Solo nel VI secolo gli scultori greci dell'avorio cominciarono a sostituire l'ambra con l'oro, e fu così che fiorì la statuaria crisoelefantina (d'oro e avorio), caratteristica dell'arte sacra della grecità classica.  Secondo Anton Bammer, il fatto che l'oro sostituì l'ambra determinò l'ambivalenza del termine elektron (= "ambra" e "lega aurea").  
In Italia, dopo le prime esperienze dell'VIII secolo, si ebbero produzioni di ottimo livello nei secoli VII e VI, grazie all'attività di maestri greci, formatisi alla scuola orientalizzante, che operarono in Magna Grecia, nel Piceno e probabilmente anche in Etruria, regione ove, in ogni caso, essi fecero sentire la loro influenza sulle correnti artistiche locali.  Se in ambito greco e orientale l'avorio e l'ambra venivano lavorati dagli stessi artigiani, in ambito italico cominciarono a separarsi, circa nel VI secolo, scuole distinte specializzate nei due materiali: una, quella dell'avorio, dedita soprattutto alla realizzazione di cofanetti e alla tecnica del bassorilievo, l'altra, quella dell'ambra, collegata all'arte degli orefici e specializzata nella produzione di gioielli e portafortuna.  
Accanto alle ambre di produzione centroitalica, in alcuni casi ancora legate alla tradizione villanoviana (cioè dell'Etruria durante l'età del Ferro), e a quelle orientali ed orientalizzanti, si hanno in ambito italico le ambre greche, le quali pure sono di stile orientalizzante, uscite in molti casi da botteghe di intagliatori d'avorio.  Nel Piceno (Castelbellino e Belmonte) si sono rinvenute anche sculture in avorio con maschere d'ambra incastonate, nonchè mascherine isolate da incastonare.  In particolare, dalla tomba 83 di Belmonte vengono due statuette di una dea alata, il cui volto era in ambra (fig.29).  Queste sculture sono greche, databili al VI secolo iniziale, epoca alla quale risale pure una coppia di sfingi di fattura greca, in avorio, con maschera d'ambra (fig.28), trovate a Grafenbühl, presso Asperg (non lontano da Stoccarda), nel Baden-Württemberg, in una sepoltura principesca tardo-hallstattiana.  Il collegamento fra le sculture picene e quella di Grafenbühl è stato proposto da C.Rolley, il quale ha rilevato il ruolo-chiave della cultura picena nei traffici che collegavano il mondo greco e magno-greco con l'Europa centrale del VII e VI secolo, dove i principi celti importavano vino e usavano servizi da banchetto greci ed etruschi.  La presenza di materiali bronzei greci, veicolati attraverso il Piceno, rinvenuti in Svizzera conferma questo ruolo-chiave svolto dalla cultura picena.  Si trattava di opere di artigiani greci - o profondamente ellenizzati - che operavano nel Piceno in accordo con le aristocrazie locali.
Le sfingi di Grafenbühl, forse prodotte a Taranto, richiamano, dal punto di vista stilistico, la testina "subdedalica" in ambra della tomba 96 di Chiaromonte, che faceva parte di una ricchissima parure funeraria d'ambra composta soprattutto di collane con elementi ad aryballos.  Elementi del genere, in ambra o avorio, si ritrovano frequentemente nella Grecia arcaica, ad esempio nel deposito dell'Artemision a Efeso, presso il tempio di Orthìa a Sparta, o a Perachora.  È dunque probabile che le ambre della Basilicata arcaica fossero in buona parte prodotte da artigiani greci, forse operanti in Italia.    Un'altra classe di oggetti che accomuna la Grecia e l'Italia sono le fibule con elementi d'ambra e d'avorio, che si ritrovano a Perachora, al tempio di Artemide Orthìa, ma anche in Italia meridionale.  Assai problematiche sono le ambre dell'Artemisio di Efeso: a parte gli elementi ad aryballos, comuni sia in Grecia che in Italia, per certe categorie "anomale", quali le testine, i confronti migliori vengono dall'Etruria meridionale.  Sia le testine di Efeso che le sculture in ambra di Veio e di Vetulonia hanno gli occhi realizzati "a punto di dado".  Si potrebbe pensare dunque ad una tradizione di lavori in ambra che accomunava l'Italia centrale e la Ionia.
Circa l'attività di Greci d'Asia Minore in Italia, sappiamo che in Etruria giunsero artisti ionici, e specialmente orefici, anche nel corso della seconda metà del VI secolo, quando gli Ioni emigravano dall'Asia Minore per sfuggire al dominio persiano; alla scuola di tali artisti si formarono anche gli intagliatori di ambre che operarono in Etruria a partire dalla fine del VI secolo e durante tutto il V.  Ma di tale argomento si parlerà più avanti.
Da questa panoramica sulle attestazioni di ambre nell'Italia arcaica emerge un elemento particolarmente interessante: i contatti dell'Europa centrale con gli acquirenti italici e greci, sembrano sopiti durante i primi secoli dell'Età del Ferro, mentre risultano fiorenti nei secoli VII e VI, come documentano le importazioni di prodotti di lusso greci ed etruschi da parte degli aristocratici dell'Europa centrale e occidentale.  Credo non sia un caso se tale fioritura di contatti fosse contemporanea ad una grande diffusione di oggetti d'ambra nel mondo greco e, ancor più, italico.  È dunque probabile che i signori dell'Europa hallstattiana avessero offerto anche ambra in cambio degli oggetti che acquisivano.  Anche i Piceni si dovevano rifornire - direttamente o meno - di ambra presso i mercati centro-europei, e i possibili ritrovamenti di manufatti piceni nell'Europa centrale, e in particolare in Ungheria, potrebbero testimoniare che i popoli italici mantenevano contatti non tanto con le genti del Baltico, quanto con "mediatori" dell'area hallstattiana.  Per contro, il rinvenimento di materiali hallstattiani a Vetulonia, centro di lavorazione dell'ambra, comprova il ruolo dell'Europa centrale nello smistamento della materia prima dal Baltico verso il Mediterraneo.  Dato che in area hallstattiana si ritrovano manufatti italici e in Polonia (area delle culture di Lusazia e di Pomerania) manufatti hallstattiani, è da pensare che il commercio dell'ambra si svolgesse secondo il modello dei doni iperborei, che venivano trasmessi da un popolo all'altro fino al Mediterraneo.  Le vie commerciali seguite dall'ambra sembra fossero prevalentemente dirette verso l'area adriatica, mentre l'importante via di comunicazione del Rodano, facente capo a Marsiglia greca, non ha finora fornito attestazioni di grandi concentrazioni d'ambra.  
La rispondenza fra la diffusione dell'ambra e l'interscambio Europa centrale - mondo mediterraneo è provata anche dai fenomeni sviluppatisi alla fine dell'età arcaica.  Sullo scorcio del VI secolo gli Etruschi popolarono intensamente la pianura padana e vi fondarono (o vi rifondarono) importanti città come Felsina (Bologna), Spina, Adria, Mantova.  Nel V secolo la cultura hall-stattiana, caratteristica dell'Europa centrale e occidentale, cede il posto alla cultura La Tène, quella dei Galli che, in epoca storica, si scontreranno con i Romani.  La fioritura dell'Etruria padana determinò un rapido incremento degli scambi fra gli Etruschi e le aristocrazie centro-europee, e anche con quelle dell'area ungherese, cecoslovacca e austriaca.  L'andamento delle importazioni di ambra in ambito mediterraneo subisce, non a caso, una profonda mutazione proprio in questo torno di tempo: l'ambra diviene un prodotto acquisito, lavorato ed usato in ambito italico, mentre in ambito greco essa scompare quasi del tutto.  E, come si vedrà, non a caso il periodo migliore della produzione di gioielli in ambra coincide con la fioritura dell'Etruria padana nel V secolo.  Questo significa che la via principale attraverso la quale giungeva l'ambra dal Baltico al Mediterraneo non passava tanto per il mar Nero o per il Tirreno, quanto per l'area alto-adriatica e padana.

16) Pelasgi ed Etruschi alle isole Elettridi

Da quanto detto finora, sembra che le leggende sull'ambra siano state essenzialmente leggende greche.  Ma da un certo momento in avanti, come vedremo, esse ebbero anche una dimensione etrusca.
Nella parte dedicata alla letteratura (§ 6 "Dedalo e Icaro") è stato esaminato un brano pseudo-aristotelico nel quale viene narrata la vicenda di Dedalo che giunse alle isole Elettridi, davanti alle foci dell'Eridano (identificabile qui con il Po per l'accenno ai detriti fluviali che crearono le isole) e qui eresse due statue di stile arcaico, una di stagno e una di bronzo, raffiguranti lui stesso e il figlio Icaro.  Dedalo detenne il potere su queste isole fino a che non fuggì verso l'isola Icaria (isola dell'Egeo orientale, vicina a Samo), allorquando giunsero nelle Elettridi i Pelasgi, profughi da Argo.
I Pelasgi erano un leggendario popolo greco delle origini, stanziato ad Argo e in Tessaglia.  Di loro si narravano, più che gli stanziamenti, le migrazioni.  In particolare, Dionisio di Alicarnasso, nella sua storia delle origini di Roma, raccontava che i Pelasgi, cacciati dalla Tessaglia ad opera dei Greci, vennero in Epiro, a Dodona, alla sede dell'oracolo di Zeus.  Qui furono consigliati di risalire l'Adriatico; e così essi si misero in mare e giunsero fino alle foci del Po.  “Avendo gettato l'ancora davanti ad una delle bocche del Po, quella del ramo detto Spinetico, vi lasciarono le navi e le persone meno in grado di sopportare le fatiche, avendole messe a guardia delle imbarcazioni in modo da conservare una via di scampo se la loro impresa non avesse avuto successo.  Quelli che rimasero circondarono il loro campo con un muro e rifornirono le navi con tutte le provviste necessarie alla sopravvivenza; poichè videro che la loro situazione procedeva favorevolmente, fondarono una città che aveva lo stesso nome della bocca fluviale.  Costoro ebbero fortuna più di tutti gli altri abitatori del mare Ionio, detennero a lungo il dominio del mare ed inviarono a Delfi la decima delle rendite provenienti dal mare, più splendida di quelle inviate da tutti gli altri” (Dionisio di Alicarnasso I.18.3-4).
Dionisio risaliva, attraverso autori intermedi, alla leggenda attestata già in Ellanico di Lesbo, storico della metà del V secolo a.C. ca.  Infatti, un po' oltre, Dionisio cita questo autore (I.28.3 = Ellanico, 4, F 4 Jacoby), secondo il quale i Pelasgi, giunti al fiume Spinete, si sarebbero diretti verso l'Italia centrale, ove si stabilirono a Crotone (cioè Cortona).  Secondo Ellanico i Pelasgi erano gli antenati degli Etruschi, e nel racconto di Dionisio le azioni attribuite ai Pelasgi sono, nella realtà storica, proprie degli Etruschi di Spina: le offerte regolari ad Apollo delfico, attribuite ai Pelasgi, erano eseguite nel V secolo dagli Spineti, che a Delfi avevano un "tesoro" (edificio per conservare le offerte); il predominio sul mare attribuito al popolo leggendario fu esercitato da Spina etrusca; Dionisio afferma poi che i Pelasgi furono aggrediti da barbari, che in seguito furono cacciati dai Romani, e tali barbari erano i Galli Boi che attaccarono Spina nel IV secolo.  Le fonti, d'altra parte, fanno eco ad una tradizione secondo la quale Spina sarebbe stata una "città greca" e, parallelamente, l'indagine archeologica della città padana ha documentato la straordinaria ricchezza delle importazioni di merci greche, soprattutto di ceramica attica; nè erano assenti da Spina gli stessi culti greci.  Spina, per quanto ellenizzata, era però una città etrusca.  Secondo Diodoro Siculo (XIV.113.2), certi autori sostenevano che gli Etruschi della Padana erano coloni delle dodici città dell'Etruria, mentre altri li consideravano Pelasgi venuti dalla Tessaglia a causa del diluvio universale, dal quale s'era salvato solo Deucalione, insieme a Pirra.
Pertanto, nella fioritura - databile al 500 ca. - della tradizione che collegava Spina ai Pelasgi si è portati a vedere l'effetto di una politica di propaganda degli Etruschi presso i Greci.  Desiderosi di conciliarsi i favori dei Greci, di cui sembravano politicamente nemici, ma che erano loro indispensabili partners commerciali, essi probabilmente si servirono di questa leggenda di parentela tra i popoli.  I Pelasgi infatti, secondo la leggenda, sarebbero stati un popolo greco.  
Dunque la tradizione su Dedalo, predecessore dei Pelasgi alle foci dell'Eridano, chiama in causa gli Etruschi padani.  Il testo dello Pseudo-Aristotele non permette però di cogliere certe sfumature che sarebbero importanti: se Dedalo fuggì all'arrivo dei Pelasgi, significa che questi gli erano nemici?  Dedalo, ateniese secondo la tradizione, era sentito come un antesignano della grecità oppressa dai Pelasgi-Etruschi?  Ma anche questi ultimi erano Greci.  Del resto, non è neppure scontato che nel nostro autore i Pelasgi si identifichino completamente con gli Etruschi, poichè esistono varianti alla saga dei Pelasgi nella Padana, secondo cui questi ultimi erano i predecessori degli Etruschi, ma non i loro antenati, o che, addirittura, essi sarebbero stati aggrediti dagli Etruschi ed aiutati dagli Umbri.  Gli autori che cercavano di scindere Pelasgi ed Etruschi intendevano evidentemente negare la pretesa grecità di questi ultimi, operando nell'ambito della propaganda diffusa da Dionisio il vecchio e Dionisio il giovane, tiranni di Siracusa, nemici degli Etruschi, e dunque propensi a ritenerli barbari e non greci.  Pertanto è possibile che: a) i Pelasgi che presero il posto di Dedalo fossero gli antenati degli Etruschi (secondo la versione del V secolo), oppure che b) che fossero solo i predecessori di questi ultimi (secondo la versione filosiracusana del IV secolo), i quali, in questo caso, non avrebbero avuto nulla a che fare con la fuga di Dedalo.  Certo è che Dedalo era implicato nella tematica delle origini pelasgiche degli Etruschi nel Delta padano.  D'altra parte, due importanti reperti archeologici risalenti al V secolo a.C. provano come la figura di Dedalo fosse familiare agli Etruschi della Padana.  Il primo è una bulla (amuleto da portare al collo) aurea, conservata alla Walters Art Gallery di Baltimora (fig.30), rinvenuta presso Comacchio, e dunque nel territorio di Spina; essa raffigura Dedalo e Icaro in volo, con le iscrizioni in alfabeto etrusco settentrionale TAITLE e VIKARE, i loro nomi in etrusco.  Nello stesso schema iconografico, con le gambe piegate, Dedalo appare in uno dei bassorilievi che adornano la fascia dello spessore di una stele felsinea, proveniente da scavi nei giardini Margherita, conservata al Museo Civico di Bologna.  Secondo Ellanico, i Pelasgi sarebbero stati cacciati dalla Tessaglia ad opera di discendenti di Deucalione, secondo Diodoro Siculo (XIV.113.2), a causa del diluvio universale.  















Fig.30: Baltimore, Walters Art Gallery, bulla aurea da Comacchio raffigurante Dedalo e Icaro (foto della Walters Art Gallery)
Una tradizione di probabile origine epirota, attestata in Plutarco, vuole che il primo re dei due principali popoli dell'Epiro fosse stato Fetonte, che qui era venuto in seguito al diluvio universale, insieme a Pelasgo e ai suoi compagni.  Che questo Fetonte fosse quello della saga del carro del Sole è reso plausibile dal fatto che, secondo Igino (Favole 152), l'incendio causato da Fetonte fu spento da Giove con il diluvio, il quale distrusse tutti gli uomini, eccetto Deucalione e Pirra.
Forse dunque gli Etruschi della Padana si appropriarono anche del mito di Fetonte?  Secondo Polibio (II.16), Diodoro (V.23.4), lo Pseudo-Scimno (400-401, Geographi Graeci Minores, I, p.213) e Plutarco (Sul ritardo della giustizia divina 12 = 557 D), gli abitatori delle regioni prossime al Po avrebbero portato vesti scure in segno di lutto per la morte di Fetonte, o in ricordo di quel lutto leggendario.  Tale tradizione doveva essere presente già in Eschilo, il quale, nelle Eliadi, scriveva che "le donne di Adria avranno consuetudine di lamenti".  È possibile che si trattasse semplicemente di una fantasiosa interpretazione greca dei costumi degli Etruschi e delle altre genti della Padana, ma è altresì possibile che questi stessi abitatori avessero assunto un loro ruolo nella vicenda fetontea interpretando, o collaborando coi Greci ad interpretare certi loro costumi in chiave mitologica.  D'altronde, un commentatore antico di Esiodo affermava che Odisseo, Circe e i loro figli avevano regnato sulle isole Elettridi, abitate da Etruschi.










Fig.31:Museo Civico di Bologna, raffigurazione di Dedalo su una stele felsinea

Molti di quelli che siamo abituati a chiamare "miti greci" in realtà erano greci solo in parte, o solo all'origine, perchè in ambito italico essi furono rielaborati, modificati ed arricchiti.  La saga di Ercole che attraversa l'Italia con i buoi di Gerione, è un buon esempio di come certi miti "greci" dovrebbero essere considerati "greco-etruschi" e "greco-italici".  Probabilmente questo è anche il caso di Fetonte, di Dedalo e delle isole Elettridi.  Tale complesso mitologico, che in Esiodo e ancora in Erodoto non aveva che un'imprecisa ambientazione nell'Europa "iperborea" del Nord, con la fioritura delle città etrusche della Padana, alla fine del VI secolo a.C., assume una "dimensione etrusca", trovando un'ambientazione nell'area del basso Po.  Per questo Eschilo traspone il lamento delle Eliadi nei costumi delle donne di Adria, che erano etrusche (ma anche venete e greche); per questo Ferecide identifica l'Eridano con il Po e vi ambienta episodi della leggenda di Eracle; per questo Fetonte cade in un lago termale presso Montegrotto e Dedalo giunge nelle isole Elettridi ammassate alla foce di un fiume che non può che essere il Po.  Forse è per questo che troviamo a Contarina un Eracle bronzeo di tipo "iperboreo".  Non è da escludere dunque che per la prima volta nel V secolo tali leggende abbiano assunto una vera dimensione geografica, grazie agli Etruschi del Polesine, ai Veneti delle sponde settentrionali del basso Po e del bacino dell'Adige, e forse anche grazie agli Umbri, stanziati a Sud del Po.  Inoltre è da credere che tale scenario alto-adriatico delle leggende avesse goduto di molto favore pressi i Greci in seguito ai floridi contatti commerciali con gli Etruschi di Adria e Spina.

Lo Pseudo-Aristotele parlava di isole ammassate, accumulate dall'Eridano davanti alla foce.  Al tempo degli Etruschi esistevano isolette che avevano queste caratteristiche.  Dalla zona di Ravenna fino al Lido di Venezia è stata documentata l'esistenza di alti cordoni di dune costiere, che al giorno d'oggi fanno parte della terraferma - tranne i segmenti insulari che chiudono la laguna di Venezia - a causa dell'avanzamento della linea costiera e dell'interramento di lagune e paludi interne, ma che in antico seguivano il litorale; anzi, i litorali delle varie epoche: essenzialmente quella preistorica, quella etrusca e quella romana.  Questi cordoni sabbiosi - dei quali ormai non restano che poche tracce, a causa di sbancamenti recenti poco rispettosi dell'ambiente - erano interrotti dalle foci dei fiumi, e soprattutto dalle bocche del Po e dell'Adige.  In epoca etrusca, all'altezza di Adria i cordoni litoranei dovevano racchiudere le zone paludose dette Atrianorum paludes, e forse la stessa Spina doveva sorgere in zone acquitrinose, visto che i suoi isolati urbani sono costruiti mediante complessi sistemi di palificazioni e terrapieni; probabilmente Adria seguiva modelli urbanistici analoghi.
Lungo i cordoni costieri di età protostorica (vale a dire di età etrusca) si trovano cospicue tracce della presenza etrusca.  In particolare, abbiamo la stessa Spina, che sorgeva immediatamente a ridosso dei cordoni di dune, e Cavallara di Ostellato, poco a Nord di Spina, dove furono ritrovati bronzetti etruschi; troviamo inoltre, in territorio adriese, S.Basilio di Ariano Polesine, donde provengono materiali etruschi, greci e paleoveneti; Taglio di Po, ove si sono rinvenuti corredi funerari con ceramica greca ed etrusco-padana; Loreo, donde viene un'ansa di oinochoe a becco etrusca; Contarina, ove si è rinvenuta la famosa statuetta etrusca di Eracle, databile agli inizi del V secolo a.C.  In alcune isole della laguna veneta, inoltre, si sono trovati frammenti di ceramica greca.  Dunque i litorali dell'alto Adriatico occidentale, che a tratti dovevano formare isole allungate, erano frequentati dagli Etruschi, dai Veneti e dai Greci.
Che Plinio negasse l'esistenza di isole davanti al Po è cosa ben comprensibile, poichè i cordoni di dune in epoca romana risultano più avanzati verso Est, a causa della progressione della linea di costa, legata all'innalzamento del livello del suolo in area polesana (non a caso i reperti romani in zona adriese si ritrovano normalmente qualche metro al di sopra degli strati protostorici etruschi).  Quella che forse era stata una laguna del territorio adriese, al tempo di Plinio non era che una palude.  E in effetti Strabone (V.5.1; 8.1) descrive la fascia costiera tra Ravenna e Altino come un susseguirsi di lagune e paludi.  Queste ultime dovevano essere chiuse da isolotti costituiti dai cordoni di dune.  Nel VI-V secolo, nei tempi migliori dell'Etruria padana, il panorama che si presentava a chi giungeva dal mare alle foci dei grandi fiumi non doveva essere molto diverso da quello che si presentò allo spartano Cleonimo, giuntovi alla fine del IV secolo a.C..  Cleonimo trovò litorali del tutto simili a quelli che chiudono ora la laguna di Venezia, oltre i quali vi erano lagune.
Forse anche la presenza di un fiume detto Eretainos, come si è già detto (§ 8), potè contribuire alla localizzazione dell'Eridano in questa zona.  Per altro, l'Eretainos-Meduacus fu il fiume che Cleonimo risalì prima di essere sconfitto dai Patavini.  In ogni caso, le isole ammassate dall'Eridano, dove sarebbero giunti Dedalo e i Pelasgi, hanno buone probabilità di essere, nella concezione di autori del V-IV secolo, le isole litoranee di cui abbiamo parlato, abitate da Etruschi, Veneti e Greci.
Ora sarà opportuno rivolgere l'attenzione a due particolari del racconto pseudo-aristotelico: Dedalo avrebbe forgiato una statua di stagno, oltre che una di bronzo, e l'avrebbe innalzata nell'isola Elettride, cioè nell'isola dell'ambra.  Già abbiamo esaminato un passo di Erodoto (III.115), il quale attesta che "lo stagno e l'ambra vengono dalle più lontane regioni".  Gli autori antichi parlano spesso di isole Cassiteridi, cioè isole "dello stagno", e le localizzano variamente.  Esisteva anche una tradizione secondo cui esse si trovavano in Adriatico.  Circa la Cassiteridi, non conosciamo leggende o resoconti di viaggiatori che ci parlino dell'origine dello stagno, ma pare certo che la tradizione su queste isole trasfigurasse la realtà del commercio di questo prezioso metallo.  Una loro localizzazione in alto Adriatico forse presuppone un commercio dello stagno, verosimilmente quello proveniente dalla Boemia, gestito dagli Etruschi.  Trattare dello stagno ci porterebbe però troppo lontano (forse fino in Britannia); sarà meglio dunque tornare all'ambra.  

17) L'ambra e gli intagliatori di gemme

In questo paragrafo cercheremo di spiegare perchè verso la fine del VI secolo iniziò una nuova fioritura di sculture in ambra.  La figura e l'opera di due capiscuola nell'arte della scultura delle gemme, il Maestro del Dioniso di Boston e il Maestro di Dedalo e Icaro, saranno qui studiate per comprendere quali furono le modalità attraverso le quali artisti greci operanti in Italia vivificarono la cultura artistica etrusca e contribuirono ad inaugurare un nuovo ciclo di produzioni anche nel campo dell'ambra.  Lo studio di questi artisti, vicini alla scuola di Teodoro di Samo, fornirà anche una chiave di lettura storica del mito di Dedalo nell'Etruria padana.
È lecito chiedersi perchè gli Etruschi - o i Greci - che inventarono la leggenda attestata dallo Pseudo-Aristotele abbiano fatto venire proprio Dedalo nelle isole Elettridi.  È possibile che la presenza di due statue arcaiche conservate in un sito costiero presso Spina o Adria abbia fornito lo spunto alla leggenda; del resto abbiamo visto che da Contarina proviene un bel bronzetto etrusco di Eracle, di stile tardo-arcaico.  Potrebbe anche darsi che i lavori di sistemazione territoriale, e soprattutto le canalizzazioni realizzate dagli Etruschi, fossero state attribuite all'opera di Dedalo, il quale anche in Sicilia aveva eseguito opere del genere.  Ma con ciò non si spiega il collegamento con le isole dell'ambra.  L'ipotesi che cercheremo di verificare nei prossimi capitoli è che gli intagliatori di ambre e, più in generale, gli artisti e gli artigiani dell'Etruria padana consideravano Dedalo il loro capostipite, o il loro modello da seguire e da imitare.  Del resto, la straordinaria bulla aurea di Comacchio (fig.30) raffigurante Dedalo e Icaro è stata realizzata da un eccellente orefice per il quale tali personaggi mitici avevano un significato importante, oppure è stata commissionata da un abitante di Spina che ben conosceva il mito di Dedalo alle foci del Po.  Quello che chiameremmo volentieri "Maestro di Dedalo e Icaro" era anche un intagliatore di gemme etrusche.  Soleva raffigurare personaggi (spesso alati) con vesti fluenti, gambe piegate, capelli ad ampia calottina cinti da un diadema, sulle superfici piatte raffigurava personaggi del mito greco, in uno stile che si suole definire "severo", caratteristico della prima metà del V secolo a.C.  Fra i temi prescelti dall'artista figura quello della consegna delle armi di Efesto ad Achille da parte di Tetide.  Tale soggetto era stato caro al maggiore dei predecessori di questo intagliatore, il cosiddetto Maestro del Dioniso di Boston, probabilmente un greco di Ionia che operò in Etruria negli ultimi decenni del VI secolo.  A lui sono attribuibili circa otto scarabei, tre dei quali raffigurano Achille con le armi di Efesto.  Efesto era il fabbro e l'orefice degli dei, e dunque ci si può chiedere se i primi intagliatori di gemme etrusche non intendessero proporre ai propri committenti oggetti raffiguranti coloro che erano i modelli mitici degli artefici umani: Efesto e Dedalo.  Come Efesto realizzò oggetti dotati di poteri magici, gioielli per le dee ed armi per Achille, così gli artefici umani crearono gemme (che erano amuleti) ed altri oggetti per qualche illustre personaggio dell'Etruria; come Dedalo scolpì statue e realizzò monumenti nel tempo del mito, così dalla bottega del Maestro di Dedalo e Icaro uscivano opere perfette per gli Etruschi dei primi decenni del V secolo.  Questi due artisti si rivolgevano a committenti aristocratici, proponendo loro il modello eroico dell'Achille omerico.
Tra gli intagli attribuiti al Maestro del Dioniso di Boston, quello conservato al Museum of fine Arts (fig.32) raffigura sul lato convesso Dioniso con la vite, in uno schema iconografico che richiama l'impostazione di una scultura in ambra del British Museum, proveniente da Canosa (fig.33).  
Fig.32: Boston, Museum of Fine       Fig.33: British Museum, in-Arts, pseudoscarabeo del Maestro     taglio in ambra da Canosa del Dioniso di Boston.

Pertanto non è escluso che dalla scuola del Maestro del Dioniso di Boston o da quella del suo successore Maestro di Dedalo e Icaro fossero usciti anche intagli in ambra e che tale scuola avesse inaugurato una tradizione di sculture in questa materia, destinata a fiorire nel V secolo.  Del resto, il tema della donna alata, tanto caro al Maestro di Dedalo e Icaro, era destinato ad avere un grandissimo successo presso gli intagliatori d'ambra.In ogni caso, l'opera e il magistero di questo samio contribuirono a rinnovare la cultura artistica etrusca, influenzando anche la nuova produzione di ambre scolpite.
Prima di concludere, è possibile precisare ulteriormente la storia dei primi intagliatori di gemme in Etruria.  È noto che l'arte della glittica, cioè dell'intaglio delle pietre dure, fiorì, secondo la tradizione, a Samo nella seconda metà del VI secolo a.C.  Il padre stesso del filosofo Pitagora di Samo, Mnesarco, sarebbe stato uno scultore di gemme, ed è famosissimo l'aneddoto dell'anello di Policrate, tiranno di Samo, secondo cui esso sarebbe stato l'oggetto più prezioso che Policrate possedeva.  Vuole la tradizione che questo anello-sigillo, in smeraldo e oro, fosse opera del samio Teodoro, figlio di Telecle (artista pure lui).  Teodoro, che operò intorno alla metà del VI secolo, fu uno dei più geniali artefici dell'età tardo-arcaica: inventò, pare, la fusione del bronzo cavo all'interno, fu tra gli architetti del tempio di Artemide a Efeso e di quello di Hera a Samo, realizzò a Sparta un edificio metallico e fu considerato fra i più antichi e famosi costruttori di statue degli dei destinate ai templi.  Orbene, vi sono, per un verso, parecchi dati che permettono di collegare la tradizione di Dedalo nelle isole Elettridi con Samo e, per altro verso, di collegare l'opera del Maestro del Dioniso di Boston con la scuola samia di Teodoro.  Secondo la leggenda, Dedalo, all'arrivo dei Pelasgi, sarebbe fuggito dalle Elettridi all'isola di Ikaros, la quale è vicinissima a Samo.  Inoltre, al samio Teodoro si attribuiva la costruzione del Labirinto, che in realtà era la più famosa delle costruzioni di Dedalo.  A lui si attribuiva l'invenzione della livella, del compasso e della fusione a cera persa, che, secondo il mito, sarebbero stati scoperti da Dedalo e da Talos, nipote di Dedalo.  Per altro verso, Teodoro certamente ebbe a che fare con Policrate, il quale era ritenuto erede di Minosse nella supremazia sui mari.  La leggenda di Dedalo ebbe pertanto anche una dimensione culturale samia, legata alla tradizione degli artisti della seconda metà del VI secolo.
Per altro verso, molte gemme del Maestro del Dioniso di Boston e la stessa bulla di Comacchio raffigurano personaggi mitici con vesti dalle pieghe fittissime, nello stile delle vesti delle fanciulle raffigurate in statue samie di pietra.  Ma c'è di più: nel tempio di Hera a Samo c'era una famosa statua bronzea nella quale Teodoro aveva raffigurato se stesso, con la lima in mano (doveva essere dunque la statua di una sorta di "Dedalo"); la fama di quest'opera era legata alla finezza dei particolari dell'esecuzione e soprattutto ad una mosca poggiata su tre dita congiunte della mano sinistra, sotto le cui ali Teodoro aveva scolpito una piccolissima quadriga.  
















Fig.34: Orvieto, Museo C.Faina, gemma del Maestro di Dedalo e Icaro, da Orvieto (da Körte)
Ora, sulla gemma del Maestro di Dedalo e Icaro conservata a Orvieto (fig.34) è raffigurato un giovane con due cavalli e, sopra, una mosca, la quale può essere considerata la "firma" del Maestro stesso.  Ciò non significache il Maestro fosse Teodoro stesso: poteva trattarsi anche di suo figlio o del suo allievo ed erede spirituale, ma, in ogni caso, questo simbolo personale, questo marchio d'artista (i Greci avrebbero detto questa "sphragìs") ci riporta ad un preciso ambito culturale: quello di Teodoro samio.  
Il Maestro di Dedalo e Icaro operava in Etruria e scriveva in etrusco, come dimostrano la gemma di Leningrado e la bulla di Comacchio.  Considerato poi che lo scarabeo di Orvieto è stato ritrovato insieme a ceramica a figure nere e a figure rosse (con la quale si scende fino al secondo quarto del V secolo), è da ritenere che egli operasse entro la scuola fondata nella seconda metà del VI secolo da qualche artista samio trasferitosi in Etruria, forse da Teodoro stesso.  Del resto, sappiamo che altri personaggi di rilievo nella cultura samia si trasferirono in Italia, come ad esempio il famoso scultore Pitagora, che da Samo venne a Reggio in quell'epoca, ed anche l'omonimo filosofo Pitagora che venne a stabilirsi a Crotone.


18) Le ambre dedaliche

A partire dalla fine del VI secolo, i Greci non importarono ambra in misura rilevante, come nei secoli precedenti.  Per contro, da questo periodo, e soprattutto nel V secolo, gli Etruschi, i Sanniti, i Dauni e altri popoli italici divennero i principali importatori di questo prodotto.  Tra il V e il IV secolo le ambre non vengono più usate solamente per realizzare grani di collane (come nell'età del Bronzo) o per castoni di fibule e per altri oggetti preziosi di ornamento (come nell'età del Ferro), ma sono usate anche per farne sculture, talora piccoli capolavori.  Le ambre scolpite spesso sono forate, per farne elementi di collana, per decorare fibule; in altri casi sono oggetti solo da ammirare e conservare.  Esse sono un prodotto tipicamente (anche se non esclusivamente) italico.  Già nell'VIII-VII-VI secolo sono attestate ambre scolpite, spesso in stile orientalizzante o egittizzante.  Per la nostra ipotesi di lavoro sono però più importanti le ambre intagliate del periodo che va dalla fine del VI secolo agli inizi del IV.  Come vedremo, è questo il periodo in cui fu realizzata la gran parte delle sculture in ambra che conosciamo.  Ed è questo, per altro verso, il periodo in cui fiorì l'Etruria padana, le cui città, dopo circa un secolo di vita, furono cancellate o annichilite dalle scorrerie e dalle conquiste territoriali dei Galli, calati in Italia all'inizio del IV secolo.  Dunque, sembra che la moda degli intagli in ambra fosse caratteristica (anche se non esclusiva) del V secolo.  La loro area di distribuzione copre praticamente tutta la Penisola (qualche attestazione anche in Jugoslavia), con forti concentrazioni presso insediamenti sanniti o iapigi, in Campania, Lucania e Puglia settentrionale, nonchè in località costiere del Piceno.  Considerati lo stile e l'alta qualità, questi prodotti possono essere ritenuti etruschi, ispirati a modelli greci, oppure propriamente greci; ma, data la quasi totale assenza di simili reperti in ambito greco, l'ipotesi etrusca resta la più probabile, soprattutto per le serie di migliore qualità stilistica, mentre altre serie più scadenti potrebbero anche essere considerate imitazioni eseguite, poniamo, dai Sanniti del basso Adriatico o dai Dauni.  Se le cose stanno così, allora il mito di Dedalo alle isole Elettridi potrebbe avere legami con la produzione e il commercio delle ambre intagliate dagli Etruschi.  Una simile ipotesi assumerebbe un interesse ancora maggiore laddove si potesse dimostrare - come credo si possa fare - che esistette una produzione di sculture in ambra anche presso gli Etruschi della Padana.  Dedalo allora, il re delle isole Elettridi, poteva essere considerato il capostipite o il comune maestro degli artigiani etrusco-padani, un po' come l'indovino greco Polles era considerato il capostipite di una famiglia etrusca dedita alla divinazione, o Calcante, indovino dei poemi omerici, maestro dell'aruspicina etrusca, Marsia, maestro di arti divinatorie e capostipite dei Marcii, una gens romana attiva nell'arte della profezia.

Passeremo dunque in rassegna i principali gruppi di ambre intagliate databili a partire dalla fine del VI secolo fino al IV a.C. - senza peraltro pretendere di fornirne un catalogo completo - poichè il nostro scopo è quello di individuare le eventuali ambre "dedaliche", cioè quelle prodotte dai maestri etruschi della Padana e dalle botteghe etrusche legate alla scuola etrusco-padana.  Per prima cosa segnaleremo i gruppi di ambre caratterizzate da occhi 











































Fig.35: New York, Metropolitan Museum of Art, scultura in ambra da Falconara (foto Metropolitan Museum)







































Fig.36-37: New York, Metropolitan Museum of Art, statuetta in ambra di donna con bambino e maschera in ambra, da Falconara (foto Metropolitan Mus.) - Fig.38-39: Museo Naz. di Belgrado, statuette femminili da Novi Pazar









































Fig.40-41: British Museum, teste in ambra da Armento (foto British Museum)






































Fig.42: British Museum, statuetta maschile in ambra da Armento (foto British Museum)
di dimensioni piccole o normali.
a) Da Falconara, nelle Marche, provengono alcune ambre, conservate al Metropolitan Museum di New York, fra le quali la famosissima "coppia di sposi" con un fanciullo ai piedi e un cigno al di sopra (fig.35); una donna con bambino in braccio (la cui testa è perduta, fig.36) e una bella testina (fig.37).
b) Al British Museum sono conservate testine (si possono definire "maschere", per la loro frontalità) del medesimo tipo, provenienti da Armento (Potenza)(fig.40-41) e da Canosa, nonchè una statuetta di ragazzo da Armento (fig.42).
c) A Novi Pazar, in Serbia, alla confluenza dei fiumi Dezeva e Raska, è stato scavato un tumulo entro il quale erano sepolture con corredi principeschi (ora al Museo Nazionale di Belgrado), databili prevalentemente intorno alla seconda metà del VI secolo.  Oltre a ceramica attica a figure nere, vasi bronzei di produzione corinzia, una patera d'argento, armature ed altri oggetti, si sono rinvenute delle eccezionali placchette d'ambra (una con figura di guerriero greco con elmo corinzio, sfingi, leoni alati e grifoni), sei teste che sembrano spettare al gruppo "dai piccoli occhi", come pure vi spettano due belle statuette (fig.38-39) di fanciulle (una terza è più rozza), che trovano confronti solo in tre altri esemplari: uno già a Berlino e due a Dresda.  Inoltre furono rinvenute moltissime altre ambre [27 teste di ariete (fig.65-71), oltre a frammenti, 6 di leone, una di cavallo, una o due di grifone, 3 galli, 33 uccelli, 2 cigni, delle ghiande, molti grani di collana] di cui si farà cenno più avanti.
d) Dall'area sepolcrale centrale della necropoli principesca di Atenica, presso Caç±ak (Serbia occidentale), proviene una testa, corrosa, che potrebbe spettare al medesimo tipo.  Essa è associata a molti altri elementi in ambra: vaghi di collane (sia grezzi che lavorati), 5 pendenti a bulla, 2 teste di leone (fig.60), 7 di ariete (fig.55-59), 3 uccellini (fig.61-62).  La datazione della sepoltura è verso la fine del VI secolo a.C.



















Fig.43: Dresda, Museum Albertinum, statuetta femminile in ambra










































Fig.44: Parigi, Petit Palais, Arpia in ambra da Sala Consilina









































Fig.45: Parigi, Petit Palais, donna alata in ambra, con corpo d'insetto, che rapisce un bimbo, da Sala Consilina











Fig.46: Parigi, Petit Palais, figura alata in ambra da Sala Consilina
Fig.47: Parigi, Petit Palais, pendente in ambra con donna alata, da Sala Consilina
e) Nella stipe votiva di Fonte veneziana, ad Arezzo, è stata rinvenuta una statuetta di ragazzo, insieme ad un gruppo di statuette di bronzo, spettanti al VI secolo a.C.
f) Al Museo Albertinum di Dresda ci sono due statuette (fig.43) femminili ammantate (cf. quelle di Novi Pazar) e due testine finemente intagliate.
g) Nei Musei Statali di Berlino erano conservate due teste e una statuetta femminile paragonabile a quelle di Dresda e Novi Pazar.
h) Al Museo di Stuttgart ci sono due testine maschili simili a quelle di Novi Pazar.
i) Si ha notizia di testine in ambra, sia con occhi piccoli, sia con occhi grandi a mandorla, rinvenute a Metaponto, in Magna Grecia.
l) Si ha notizia di tre statuette di fanciulle (al P.Getty Museum, a Los Angeles e a Ginevra) di stile ionico, due provenienti da Taranto, una dall'Italia del Sud.
m) Vi sono poi le ambre rinvenute nel 1896 in una sepoltura di VI secolo a Sala Consilina (Salerno), conservate al Petit Palais di Parigi.  Le più notevoli rappresentano figure di Arpie (o Sirene alate), di alto livello artistico.  Alla fig.44 è riprodotta un'Arpia con diadema (alt.cm.3, lungh.5,5, spessore 2,8), dalla quale si diparte verso l'alto un blocco d'ambra; alla fig.46 un'altra simile figura, che doveva, in origine, avere un copricapo, e che tiene tra le mani un oggetto (cm.5x7,5x2,5); alla fig.47 un pendente decorato da una figura femminile (alt.7,5, lungh.5).  Interessante è, alla fig.45, la figura alata che rapisce un bambino: essa ha un cappello conico ed abbassa delle ali da  uccello quasi a proteggere il bimbo, mentre il suo corpo sembra 










































Fig.48: Museo Nazionale di Taranto, testa femminile da Roccanova









































Fig.49: Londra, British Museum, testa femminile in ambra da Canosa (foto British Museum) 

















Fig.50: Museo Nazionale di Zagabria, scultura in ambra da Prozor (da BiΩ±içv-Drechsler)
essere di insetto.  Si tratta, verosimilmente, di prodotti etruschi.
Una relativa omogeneità si ha fra le testine e le statuette dalla Jugoslavia e dai musei tedeschi.  Per quanto riguarda le fanciulle ammantate, va detto che in qualche esemplare (specie uno di Dresda) i calzari hanno una foggia tipicamente etrusca (i cosiddetti calcei repandi, con la punta rialzata) e che la tipologia di queste sculture è strettamente imparentata con quella di statuette bronzee dell'Etruria meridionale, di gusto ionizzante, databili circa al 520-510 a.C.  La statuetta più rozza di donna ammantata rinvenuta a Novi Pazar trova confronto in una statuetta analoga da Canosa e in una da Monteleone di Spoleto (Perugia); esse possono essere considerate di produzione centro-italica.  Etrusche possono essere ritenute anche le figure alate di Sala Consilina, con le quali presenta qualche affinità il gruppo raffigurante gli "sposi" da Falconara.  Invece si dovrà pensare a produzioni diverse per le ambre di Armento: le testine umane potrebbero essere greche, o ispirate a modelli greci, mentre gli animali trovano confronti, per un verso, nelle produzioni picene e, per un altro, in quelle di Felsina etrusca.
Una classe di testine si distingue per la grandezza esasperata degli occhi, contornati da una doppia solcatura, per la piccola bocca e le chiome ondulate.  Questo sottogruppo, detto "di Roccanova" dal sito di rinvenimento di una testina, potrebbe avere come ambito di produzione l'Italia meridionale, visto che da questa zona provengono tutti gli esemplari di cui si conosca l'origine.  
Si tratta di testine femminili viste frontalmente, talora abbastanza grandi (da 4 a 10 cm.ca.), rinvenute a Roccanova (Basilicata, al Museo di Taranto, fig.48) e a Canosa (Puglia settentrionale, al British Museum di Londra) (fig. 49), e inoltre di una testina ai Musei Vaticani, una già al Museo di Berlino, due al Cabinet des Medailles di Parigi.  

Fig.51: testa femminile da Vasto

A fianco del "gruppo Roccanova" va segnalato un gruppo di testine femminili con capelli raccolti a crocchia sulla sommità del capo, stilisticamente rozze, databili al IV secolo, rinvenute a Vasto (Chieti, fig.51), Cupramarittima e Numana (al Museo di Ancona); due simili sono state trovate ad Aleria, in Corsica, una a Pettorano sul Gizio (L'Aquila), usata come pendaglio di fibula, altre in vari siti dell'Abruzzo.  
L'area di irraggiamento di questo gruppo suggerirebbe di ricercarne i centri di produzione lungo le coste basso-adriatiche.  E veniamo alla produzione principale del gruppo dai grandi occhi.  È in questo ambito che si collocano le ambre ritrovate nell'Etruria padana, le quali pertanto hanno probabilità di far parte delle sculture "dedaliche" di cui stiamo cercando le tracce.  Per quanto riguarda questa regione, segnaleremo tutte le ambre scolpite, anche se non tutte presentano i grandi occhi, trattandosi anche di testine d'ariete e di altri animali, le quali si trovano abbinate con le teste  dai grandi occhi sia qui che in altre zone interessate dalla diffusione dei prodotti di questo gruppo, e che, pertanto, potrebbero essere uscite dai medesimi laboratori che realizzavano le teste.  Le produzioni di questo gruppo stilistico sono molto attente al profilo e, in molti casi, alla tridimensionalità, più che alla visione frontale.
a) Dagli scavi delle necropoli di Spina provengono una testa di satiro (in un corredo di fine V secolo a.C.), tre testine di donna (tav.VII.13 e fig.52-54) e due testine di ariete.
b) Da Adria l'unica tomba del periodo VI-V secolo finora rinvenuta, la 333 della necropoli del Canal Bianco (fine VI secolo), ha restituito due teste di ariete simili a quelle di Spina (tav.III.7), e un uccello (forse un'anitra, tav.III.7).  Sempre dalla stessa necropoli proviene una testa di ariete (tav.VIII.17), molto stilizzata, priva di contesto di rinvenimento.
c) Dagli scavi di Bologna, nelle necropoli della fase etrusca "della Certosa", provengono parecchie sculture in ambra: dalla tomba 100 della Certosa due teste (tav.VIII.16 e fig.72) d'ariete (confrontabili con quelle di Spina e di Adria) e una testina femminile (tav.VII.15b); dalla 350 una bella testina femminile (tav.VII.15a); da una tomba dell'area dei giardini Margherita viene un bovino retrospiciente con una conchiglia sul dorso (tav.IV.9); dalla stessa necropoli vengono una testa femminile e due facce di donna (solo la parte anteriore della testa, fino al collo) di un tipo che ancora non ha confronti, eccetto che in un esemplare della tomba 361 della Certosa.  Inoltre al Museo Civico di Bologna è conservata un'altra testa femminile, con accenno di torsione del collo, priva di dati di provenienza.
d) Da Marzabotto, città etrusca presso Bologna, sorta alla fine del VI secolo, vengono teste di ariete, alcune delle quali analoghe a quelle di Spina, Bologna e Adria,  e inoltre sei teste femminili, due delle quali simili a quelle di Spina e Bologna, quattro più scadenti, impostate di prospetto, e una testa di cavallo.
Tutto sommato, le ambre dell'Etruria padana costituiscono un insieme compatto, anche se si notano ambre di qualità elevata ed ambre realizzate in modo più scadente (specie alcune di Marzabotto).  
È possibile trovare esemplari analoghi o simili a quelli etrusco-padani in altri contesti geografici.










































Fig.52-54: Museo Nazionale Archeologico di Ferrara, due teste femminili ed una di ariete in ambra, dalle tombe 740 b, 514 a, 409 di Spina (Valle Trebba)






































Fig.55-62: teste di ariete, testa di leone e figure di uccelli da Atenica
Fig.63: testa di ariete da Populonia
Fig.64: Leningrado, Museo dell'Ermitage, figura di ariete retrospiciente







































Fig.65-71: Museo Nazionale di Belgrado, sette teste d'ariete da Novi Pazar
Fig.72: Museo Civico Archeologico di Bologna, testa d'ariete dalla necropoli della Certosa (in basso a destra)



















Fig.73-74: Boston, Museum of Fine Arts, due teste di satiro da Praeneste




















Fig.75: Museo di Copenaghen, testa femminile in ambra proveniente dall'Etruria (da Yon)



Fig.76-77: Museo Nazionale di Melfi, protomi femminili alate da Melfi, loc.Pisciolo
Fig.78: Arpia in ambra già ai Musei di Berlino
Fig.79-80: teste femminili in ambra da Aleria (da Yon)







































Fig.81: New York, Metropolitan Museum, donna sdraiata in ambra da Falconara (foto Metropolitan Museum)
Fig.82: Museo Nazionale di Zagabria, testa femminile in ambra da Kompolje









































Fig.83: Museo Nazionale di Melfi, giovane alato in ambra da Melfi, loc.Pisciolo





















Fig.84: Museo della Certosa di Padula, figura femminile ammantata da Oliveto Citra (da Sestieri) 
animali retrospicienti
a) Al Museo del Louvre è conservato un toro retrospiciente paragonabile a quello di Bologna.
b) All'Ermitage di Leningrado c'è un ariete retrospiciente che forse può essere assegnato al medesimo gruppo (fig.64).
c) Al British Museum si conserva un toro androcefalo (forse una divinità fluviale) retrospiciente (tav.IV.8) paragonabile all'esemplare felsineo, nonchè una gazzella (?) realizzata nella medesima tecnica, entrambi provenienti da Armento.
Teste di ariete
a) Nel medesimo museo sono conservate teste d'ariete simili a quelle di Spina, Adria e Bologna, provenienti da Armento.













Fig.85: orecchini in oro e ambra da Bettona (da Cultrera)

b) Dal tumulo di Novi Pazar vengono 25 teste d'ariete (fig.65-71), più altre due frammentarie e 14 frammenti; di queste la gran parte è simile a quelle di Spina e Adria, mentre alcune, con testa allungata, sono di un tipo che si ritrova solo a Bologna e Marzabotto.  A Novi Pazar si sono ritrovate anche alcune teste di leone paragonabili con due da Armento e Canosa.
c) Ad Atenica, in Serbia, si sono trovate 7 teste di ariete (fra le quali una allungata, tipo Bologna e Marzabotto) nella sepoltura centrale, e 5 in quella periferica (fig.55-59).  Sono presenti, anche in questo sito, teste di leone (fig.60), figurine di uccelli (fig.61-62) ed altri oggetti che si ritrovano anche a Novi Pazar.
d) Due teste di ariete paragonabili a quelle di Spina e Adria vengono da Populonia (fig.63), una da Belmonte Piceno, mentre ad Aleria, in Corsica, se ne sono trovate alcune, di fattura un po' diversa, forse prodotte in area basso-adriatica.  Un ariete in ambra dello stesso stile è al Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo.
Satiri
La testa di satiro da Spina si inquadra entro una produzione assai vasta e diffusa di questo genere di sculture.  Come per le teste femminili, che tratteremo fra poco, anche per i satiri si possono distinguere almeno due livelli qualitativi.  Questa distinzione, in molti casi evidente, non è proponibile con sicurezza per alcuni esemplari di livello intermedio.  

a) Al British Museum c'è una figura di satiro vendemmiante che regge un'anfora costolata, proveniente da Canosa.
b) Da Canosa proviene un gruppo di satiro e menade.
c) Da una tomba del V secolo inoltrato di Rutigliano (Bari) viene un elemento decorativo di fibula raffigurante un satiro in ambra.
d) Al pari delle ambre precedenti, sono di ottimo livello qualitativo le due teste di satiro provenienti da Praeneste, conservate al Museum of fine Arts di Boston (fig.73-74) e quella, pure prenestina, del Museo Gregoriano Etrusco di Roma, ove è conservata anche una testa, forse di satiro, che sorregge un grosso vaso.
e) Di qualità non elevata sono le testine satiresche ai Musei di Milano, Dresda, quelle da Armento, Ruvo, Roscigno (Salerno) e da quella di Melfi, località Banzi (Potenza).
Teste e figure femminili
La classe più rappresentata in questo gruppo "grandi occhi" è costituita dalle teste femminili, fra le quali si possono distinguere i medesimi due livelli qualitativi già rilevati per i satiri.
a) Innanzi tutto si segnalano le splendide teste di donna dal Melfese (tav.VII.12), da dove provengono anche due teste femminili con ali (fig.76-7).
b) Dal Gargano proviene una figura femminile alata simile a quelle di Melfi, nonchè un frammento dello stesso genere, una testa e una donna danzante.
c) Una figura di Arpia alata era conservata ai Musei di Berlino (fig.78).
d) Altre protomi femminili alate provengono da Atella (Potenza), Ortona (Chieti), Paestum e Melfi (località Cappuccini, in associazione con due teste di donna databili al IV secolo).
e) Due begli esemplari di teste sono al British Museum, provenienti da Canosa.
f) Altri sono al Museo di Bari.
g) Una donna sdraiata (fig.81) e due testine, provenienti da Falconara, sono al Metropolitan Museum di New York.
h-i) Una figura femminile, simile a quella del British Museum, viene da Oliveto Citra (fig.84), e una, attribuibile alla stessa mano, è conservata a Newcastle.
l) Un rivestimento di fibula da Canosa rappresenta una figura femminile.
m) Da Rutigliano proviene una figura di idrofora, conservata al Museo di Bari.
n) Tre belle testine, tipo Spina, sono state trovate a Kompolje, in Croazia, e sono ora al Museo di Zagabria (tav.VII.14 e fig.82).
o) Una testina con occhi molto grandi è ai Musei Vaticani.
p) Di qualità mediocre si direbbe la figura femminile con civetta al British Museum, da Canosa.
q) Da Monteleone di Spoleto viene un busto femminile finemente lavorato, in uno stile assai particolare, databile ancora nel VI secolo
Di qualità media sono le testine di Aleria (fig.79-80), di Cuma, quella del Museo di Copenhagen (fig.75), di qualità mediocre il gruppo di Roscigno, quello dalla Valle d'Ansanto (Avellino), la testina di Populonia, alcune testine di Paestum.e  di Marzabotto.  
r) Per finire, va menzionata la sfinge alata retrospiciente del British Museum, rinvenuta ad Armento, la quale è uscita dalle mani dello stesso Maestro che ha scolpito il toro androcefalo retrospiciente e le teste femminili alate dal Melfese, della seconda metà del V secolo, di cui si è già parlato.  Con ogni probabilità a questo artista, che chiameremo Maestro delle sfingi alate, o alla sua scuola, è attribuibile anche la gazzella del British, mentre il toro retrospiciente del Museo di Bologna e quello del Louvre risultano strettamente collegati con le produzioni del Maestro, e non escluderei che esso fosse uscito dalla sua bottega, in ogni caso che fosse stato realizzato da un artista che ben conosceva le sue sculture.  Ritengo probabile che dalla bottega del Maestro fossero usciti anche due leoni trovati ad Armento e due, perfettamente simili, conservati al Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo, infatti, oltre alla provenienza, la resa delle zampe e della coda li accomuna agli animali retrospicienti.
Figure maschili
Al British Museum è conservata una scultura (tav.VI), forse proveniente da Ruvo, in Puglia, di alta qualità, raffigurante due personaggi mitologici, fra i quali compare una testa di cerva (la cerva di Cerinea?); da notare il trattamento delle gambe del satiro, eseguito in funzione della forma del pezzo d'ambra: esse sono strettamente piegate, come nel caso del satiro vendemmiante, del toro retrospiciente felsineo e dei pezzi ad esso simili, ma anche nel caso della figura di Dedalo nella bulla di Comacchio e nella stele felsinea.  Sempre al British Museum è conservata una figura di giovane seduto, di fattura simile a quella della donna di Oliveto Citra; da Melfi viene un giovane nudo alato con scudo e copricapo, qualitativamente di ottimo livello (fig.83); da Canosa proviene una placca a rilievo su due facce raffigurante una quadriga con cocchiere e, al rovescio, un giovane sopra un mostro acquatico (tav.V).  Una figura di giovane è ai Musei Vaticani, mentre al Museo Archeologico di Napoli è pervenuto da Ruvo un guerriero con le gambe strettamente piegate al ginocchio, come nel gruppo mitologico del British rinvenuto a Ruvo.  Infine, a Tolve, in Basilicata, si è rinvenuta una figura maschile accovacciata.
Accanto a questi soggetti iconografici ve ne sono altri, come quello della testa di leone (che si ritrova a Novi Pazar e Atenica, ad Armento e Canosa, e che potrebbe essere caratteristico delle stesse fabbriche che producevano le teste di ariete), la nave, il cinghiale, la gamba, il delfino...

19) Gli Etruschi e le sculture in ambra

Dal panorama fin qui delineato emerge subito una considerazione: la maggior parte delle ambre scolpite è stata trovata in ambiti culturali che difficilmente possono coincidere con quelli che le produssero.  L'arte dei Lucani, dei Sanniti, dei Dauni, dei Peucezi aveva caratteri assai diversi da quelli delle ambre ritrovate nelle necropoli di questi popoli; basta confrontare qualche statuetta bronzea di V-IV secolo prodotta dai Sanniti per rendersi conto dell'abisso che separa l'arte indigena dagli intagli in ambra.  Non c'è dubbio quindi che i centri di produzione o almeno l'origine degli artefici vanno ricercati altrove.  Difficilmente essi potranno essere stati presso qualche città greca, visto che, a parte Metaponto, Paestum e Cuma, non si rintracciano sculture in ambra nel mondo greco.  Solo Taranto risulta aver fornito una certa quantità di ambre scolpite di fine VI secolo e di V.  Greco però potrebbe essere considerato lo stile di alcune statuine, come, ad esempio, il gruppo mitologico con cerva da Ruvo o le testine femminili di più alta qualità da Armento.  La spiegazione più probabile del fenomeno è che uno o più artigiani di scuola greca avessero aperto degli ateliers i quali inaugurarono una nuova tradizione italica di lavori in ambra.  Questi artigiani erano gli eredi delle esperienze artistiche della seconda metà del VI secolo, quando furono attivi in Etruria, in Magna Grecia e in Sicilia (e forse nel Piceno) artefici greci, soprattutto ionici.  In particolare, certe sculture, come il gruppo mitologico con cerva, possono considerarsi capisaldi dell'arte dell'ambra scolpita, opera di greci (o forse di etruschi ellenizzati), capisaldi dai quali derivarono varie produzioni regionali.  Se si dovesse avanzare un'ipotesi relativa al principale centro greco in cui, o in contatto con il quale si maturò il nuovo stile degli intagli in ambra, si propenderebbe per Taranto, città che rimase greca molto più a lungo che le altre città di Magna Grecia, e nel cui retroterra indigeno sono state rinvenute le principali sculture in ambra d'ambito meridionale.  Inoltre, come si è visto, sono state recentemente segnalate dalla Causey Frel ambre scolpite provenienti da Taranto.  Del resto, come alle foci del Po, così anche presso Taranto era localizzata un'isola Elettride.  E similmente al caso della Padana, in quell'isola non si produceva ambra, ma probabilmente si commerciavano ambre, grezze o scolpite.  Già agli inizi del VI secolo a Taranto si intagliavano oggetti preziosi in ambra, come si è detto a proposito della sfinge di Grafenbühl, della dea di Belmonte e della testina "dedalica" di Chiaromonte.  Per altro verso, sappiamo bene che Taranto, tra il IV secolo e l'età romana, fu centro di produzione di gioielli di vario genere, soprattutto in oro (al Museo Archeologico Nazionale di Taranto si conservano orecchini in oro e ambra, di III secolo, e piccole sculture romane da Taranto), che venivano anche esportati presso i centri indigeni del retroterra tarantino.  Se è possibile che qualche "prototipo" e "modello" fosse stato prodotto a Taranto, è possibile allora che prototipi e modelli fossero stati imitati e avessero dato luogo a molteplici produzioni non greche, soprattutto etrusche. 
Molte testine di donna hanno un'acconciatura a cono (il cosiddetto tutulus), che era in uso presso gli Etruschi, e la resa stilistica delle teste dai grandi occhi trova confronti nell'oreficeria e nelle sculture bronzee e fittili etrusche, specialmente etrusco-padane.  
Dunque le ambre intagliate del V secolo erano prodotte anche dagli Etruschi.  Questo vale per alcune sculture del gruppo "piccoli occhi", come si è rilevato a proposito delle calzature di alcune statuette femminili, e vale per il gruppo "dai grandi occhi".  Considerato che la più parte delle sculture proviene dall'Italia meridionale, si è talora proposto di cercarne i centri di produzione in Campania.  In questa regione, gli eventuali ambienti potrebbero essere quelli etruschi di Capua, Atella, Nola e di altre cittadine fiorite nel V secolo.  L'ipotesi è valida, ma si deve tenere presente che si conoscono, finora, pochissime ambre intagliate provenienti da questi centri.  Secondo un'altra ipotesi, a Canosa ci sarebbe stata una produzione locale.  A parte la localizzazione precisa - che è pressochè impossibile - va riconosciuto che gran parte delle ambre trovate in Puglia (Canosa, Rutigliano, Ruvo, territorio barese) e a Melfi appartengono alla medesima scuola, scuola che, a sua volta, ha lasciato tracce anche nelle ambre etrusco-padane.
È stato anche ipotizzato che le città dell'Etruria padana avessero avuto una produzione propria, la quale, in base al criterio della concentrazione, potrebbe essere localizzata a Bologna.  Una tale ipotesi è pregna di conseguenze.  Infatti le ambre rinvenute ad Adria, Spina, Bologna e Marzabotto (teste di donna, di satiro, di ariete, toro retrospiciente) fanno parte di un gruppo di sculture compatto, attribuibile ad una medesima cultura artistica: se attribuiamo ad un'officina felsinea il toro di Bologna, do-vremmo attribuire alla medesima scuola tutte le ambre del Maestro delle sfingi alate; se riteniamo felsinee o spinetiche le teste di donna, dovremmo attribuire a fabbriche etrusco-padane anche alcune delle analoghe teste rinvenute in Italia meridionale, a Falconara e in Jugoslavia, le quali stilisticamente sono collegate con le produzioni del Maestro delle sfingi alate; e altrettanto vale per gran parte delle teste di satiro e di ariete.  Probabilmente uno dei segni distintivi delle testine femminili in ambra prodotte dagli Etruschi della Padana era il solco verticale che segnava la guancia.  Non sfugge il fatto che le testine in ambra etrusco-padane sono qualitativamente inferiori rispetto a quelle di Canosa, Armento, Melfi e Rutigliano. L'origine etrusco-padana degli arieti di Novi Pazar e Atenica già è stata sottolineata, in relazione al tipo di teste allungate tipicamente felsinee; ma se è assai probabile una tale provenienza, altrettanto potrebbe valere per le normali teste d'ariete tipo Adria e Bologna, che si ritrovano a Populonia, Armento, Atenica e Novi Pazar.  Adria non va certo esclusa dal novero dei possibili centri di produzione, visto che l'unica tomba di fine VI secolo rinvenutavi conteneva ambre intagliate, e visto che i poeti del V secolo menzionavano le donne di Adria in relazione alle leggende di Fetonte e dell'ambra.  
Per sintetizzare il problema delle sculture dell'Italia meridionale: si hanno due possibilità, che peraltro non si escludono a vicenda: o siamo di fronte a importazioni dal mondo etrusco, o si tratta di importazioni da Taranto.  Quest'ultima soluzione sembra valida nel caso di alcune sculture di alto livello e di stile greco, come certe testine dai "piccoli occhi" da Armento, mentre si potrebbero ipotizzare produzioni etrusche nel caso delle teste di ariete e delle teste satiresche e femminili di livello medio.  La difficoltà nella scelta deriva dalle nostre limitate conoscenze dei corredi etruschi e soprattutto tarantini del V secolo.
Nel V secolo l'arte degli intagli in ambra sembra procedere, in Italia e in Grecia, separatamente da quella degli intagli in avorio, la quale, peraltro, pare non abbia interessato l'Etruria padana, ove gli avori sono relativamente rari.  L'ipotesi di centri di produzione etrusco-padani potrebbe essere avanzata a buon diritto, ipotesi che però non riguarda tutti i pezzi di quello che abbiamo definito "gruppo dei grandi occhi"; infatti non può essere esclusa la presenza di altri ateliers in Etruria, nè l'attività di intagliatori "itineranti", che si spostarono nell'Italia durante la loro vita.  È più che probabile che le sculture della Puglia settentrionale e della Basilicata fossero state realizzate nell'Italia meridionale, forse alcune a Taranto .  Si tratta di un unico grande filone artistico che si può definire "ionizzante", all'interno del quale circolavano modelli, prototipi e forse anche artisti.  Non sappiamo con sicurezza se il prototipo del toro retrospiciente fosse stato concepito in Italia meridionale o a Felsina, nè se le prime testine femminili fossero state realizzate nel Nord o nel Sud della Penisola.  Quel che è certo è che esisteva un'unica scuola scultorea che produsse le teste dai grandi occhi e le sculture di animali.  All'interno di questa scuola spicca la personalità del Maestro delle sfingi alate (non siamo in grado di affermare se la sua officina fosse a Taranto, nè se si trattasse di un etrusco ellenizzato o di un greco).  Le produzioni più scadenti, come il gruppo di Roscigno e le testine ad esso affini sono forse attribuibili ad un filone artistico più povero (si trattava di utilizzare i grani d'ambra di forma poco idonea per scolpirvi delle belle teste), il quale trova però le sue origini molto lontano nel tempo: esistono infatti testine simili databili all'inizio del VI secolo, rinvenute in Sabina, a Monte Libretti (Roma).
D'altra parte, se è vero che intorno al 600 a.C. l'interesse per l'ambra sembra decrescere in Etruria (tutto sommato, i rinvenimenti in area etrusca sono più scarsi per il VI-IV secolo che per il VII), è altrettanto vero che tale interesse sembra crescere nell'Etruria padana proprio a partire dal medesimo periodo, e la produzione di ambre intagliate dei due gruppi da noi delineati, segue un arco cronologico che è il medesimo della fioritura dell'Etruria padana stessa, vale a dire dalla fine del VI secolo agli inizi del IV.  I rinvenimenti di grandi quantità di ambra lavorata (fibule, collane e altri gioielli) nella necropoli villanoviana di Verucchio, ma anche le molte ambre nei corredi paleoveneti di Este, Padova, S.Lucia di Tolmino provano che questo materiale perveniva in area alto-adriatica nel secolo che precedette la grande colonizzazione etrusca dell'Italia settentrionale.  Quando gli Etruschi giunsero a Felsina, Adria, Spina..., ereditarono dai loro predecessori (già etruschi a Felsina e, con ogni probabilità, a Verucchio) la rete di scambi che faceva pervenire l'ambra dall'Europa settentrionale.  Sarebbe stato, d'altra parte, assai sciocco fungere sempre e soltanto da intermediari della materia prima, facendola giungere a Taranto, a Capua o in altre città italiche, per lasciarla lavorare e commerciare da altri.  L'ambra convergeva verso la valle del Po sia da Nord-Est, attraverso le terre dei Veneti, sia da Nord, attraverso la vallata del Ticino, per i territori della civiltà di Golasecca (nell'area lombarda), che fungeva da mediatrice tra gli Etruschi e i popoli dell'Europa centrale.
I miti di Dedalo alle isole Elettridi, di Fetonte caduto nel Po, delle Eliadi lungo questo fiume potevano essere funzionali alla diffusione dei prodotti in ambra etrusco-padani, e le vesti luttuose delle donne di Adria potevano essere interpretate in chiave mitologica, in connessione con l'importanza dell'ambra nell'artigianato etrusco polesano.  La saga di Dedalo alle Elettridi può dunque essere letta attraverso due livelli di documentazione: da una parte c'è il mito che può essere letto alla luce della storia degli artisti ionici trasferitisi in Italia nella seconda metà del VI secolo, dall'altra, la documentazione di una nuova cultura artistica di V secolo - anche nel campo delle sculture in ambra - influenzata dalla presenza di quegli artisti in Italia.
In relazione al legame fra mitologia e commercio dell'ambra, non escludo che qualche scultura alludesse a temi mitologici del ciclo di cui ci stiamo occupando.  Non è infatti inverosimile - anche se non è certo - che il duplice rilievo del British Museum raffiguri la quadriga di Fetonte e, al rovescio, il giovane figlio di Helios caduto nell'Eridano e accolto sulla groppa di un mostro fluviale; il toro dalla testa umana conservato nello stesso museo potrebbe - non è detto che debba - essere stato, nell'intenzione del suo incisore, la raffigurazione dell'Eridano, dato che nel mondo antico le divinità fluviali erano concepite come tori androcefali.  In ogni caso, sarebbe molto imprudente affermare che è assente ogni richiamo ai miti dell'Eridano.
La frequenza con cui ricorre il tema del satiro e della menade nelle sculture in ambra induce a credere che la preziosa sostanza avesse avuto qualche cosa a che fare con il dionisismo italico
Fra i temi preferiti nella scultura etrusca in ambra nel VI e V secolo è sicuramente quello della donna alata.  All'interno delle produzioni caratterizzate dai grandi occhi si hanno protomi di donna alata che potrebbero spettare ad Arpie, Sirene, Striges (donne-uccello che rapivano i fanciulli, secondo le credenze popolari romane) o Lase (le Ninfe alate degli Etruschi).  Una delle Arpie provenienti da Sala Consilina, quella con corpo d'insetto (fig.45), è raffigurata mentre rapisce un giovanetto.  Donne-uccello sono raffigurate anche in parecchi intagli in pietra dura della scuola del Maestro di Dedalo e Icaro, che, come si è visto, realizzava oggetti caricati di significati magici.
All'interno della mitologia etrusco-italica il tema della donna alata che rapisce un giovanetto è molto importante.  Il mito più noto era quello del ratto di Cefalo ad opera di Eos, l'Aurora, che gli Etruschi chiamavano Thesan e che concepivano come una dea alata che porta un bimbo tra le braccia.  Eos, l'Aurora, secondo Esiodo (Teogonia 986-987), sarebbe stata madre di Fetonte, natole da Cefalo, mentre lo stesso Fetonte, secondo un ramo della tradizione, sarebbe stato rapito ed amato da Afrodite.  L'Aurora era anche una dea importante in Etruria, probabilmente più importante che in Grecia.  A Roma e nel Lazio era detta Mater Matuta.  A Pyrgi, porto di Caere, la dea era venerata nel complesso templare messo in luce a partire dagli anni '50, dal quale (tempio B) provengono antefisse fittili, di fine VI secolo, fra le quali alcune raffigurano temi del ciclo solare: il Sole (Usil) raggiante, un demone alato a testa di gallo, una dea che stringe due cavalli alati (forse Thesan), una che regge due patere, o rosoni (le stelle Espero e Lucifero?).  Dunque in ambito italico esistevano culti e miti collegati con il ciclo del sole, i quali avevano certamente corrispettivi greci, ma sviluppavano autonomamente associazioni mitiche e forme cultuali locali.  Per queste ragioni non si deve escludere che in Italia le credenze relative all'ambra, sostanza eliaca, non fossero dipese dai miti greci di Helios e Fetonte, ma che piuttosto avessero avuto a che fare con i culti e i miti delle divinità solari indigene.  Se un mito eliaco dovette essere rappresentato dagli Etruschi nelle sculture in ambra questo era il mito del rapimento amoroso da parte della dea aurorale Thesan.  Tutte le figure di donne alate in ambra costituiscono variazioni sul tema della dea alata, o della donna-uccello, innamorata del fanciullo divino, divagazioni iconografiche e imitazioni di routine, che personalizzavano per i committenti (e per le committenti) un talismano ricco di implicazioni mitologiche.  Il fatto che il medesimo tema iconografico ritorni sia nelle sculture in ambra trovate nei corredi funerari, sia in altri monumenti di carattere parimenti funerario (vasi dipinti, pitture o sculture tombali...) induce a credere che l'arpia, la sfinge o la donna alata fossero personaggi destinati a raffigurare, nell'immaginario delle genti italiche, il mondo dell'Al di là.
Lasciamo ora il terreno delle ipotesi per trarre un rapido bilancio del lavoro fin qui condotto: esso ha messo in luce una serie di argomenti, letterari, mitografici, archeologici e stilistici, che fanno convergere nell'area etrusco-padana l'attenzione di chi ricerca la matrice culturale di un gruppo importante di ambre scolpite, come quello che abbiamo definito "gruppo dei grandi occhi".

20) I Galli e le leggende dell'ambra

Un'ulteriore fase di appropriazione delle leggende greche sull'ambra e l'Eridano da parte delle genti italiche va individuata nel periodo di predominio celtico nell'Italia settentrionale, dall'inizio del IV secolo alla fine del III a.C.  Se per gli sviluppi etruschi della leggenda potevamo tentare di utilizzare dati relativi all'artigianato etrusco dell'ambra, per il caso dei Galli non è possibile neppure azzardare un'ipotesi sull'artigianato gallico dell'ambra, poichè la presenza di grani di questa sostanza nelle necropoli dell'area celtica non permette di attribuire a fabbriche celtiche i prodotti medesimi.  Per altro verso, va detto che la presenza di ambra in contesti gallici non è particolarmente ricca, anzi, si potrebbe dire che è povera rispetto alle impressionanti attestazioni di certe necropoli italiche dei secoli VII-VI e V.  Sono dunque soltanto le fonti letterarie che attestano come i Celti, e soprattutto i Celti della Padana, si fossero appropriati delle leggende dell'Eridano.
Nonno di Panopoli (cf. § 1) attesta chiaramente che quello di Fetonte era un mito caro ai Celti che abitano in Occidente, con probabile riferimento a tutto il mondo celtico dell'Europa occidentale.  Eustazio narra che i Celti raccoglievano l'ambra che scendeva dai mitici pioppi.  Anche in Filostrato vi è forse un riferimento ai Celti, lì dove egli afferma che l'oro che scendeva dai pioppi era portato ai barbari che abitano presso l'Oceano; infatti Esichio precisa che questo oro veniva portato dall'Eridano nella terra dei Celti.  D'altra parte, sovente si parla di questo fiume come di un fiume della terra celtica.  Secondo Pausania (I.4.1), nelle terre dei Celti, presso un mare ai confini dell'Europa, scorreva l'Eridano, famoso per il pianto delle Eliadi.  Per questi autori l'Eridano sarebbe stato un fiume dell'Europa centro-settentrionale.  Dione Crisostomo afferma che presso i Celti un fiume portava sassolini l'ambra.
È possibile che i Galli si fossero appropriati della saga dell'Eridano quando si insediarono nella Padana, nel IV secolo, e che avessero ereditato dagli Etruschi, insieme con la valle del fiume, anche le leggende ad esso legate.  Tuttavia è possibile che già prima della calata in Italia i Celti si fossero familiarizzati con i temi mitologici dell'Eridano.  Infatti Eschilo, come si è visto (§ 3), identificava l'Eridano con il Rodano, il quale scorreva in terra celtica e celto-ligure.  Probabilmente fu la somiglianza fra i nomi dei due fiumi che determinò la loro identificazione.  Anche Apollonio Rodio accettava (cf. § 7) questa identificazione e, per di più, riferiva che i Celti avevano diffuso una loro versione della leggenda sull'origine dell'ambra: essa si sarebbe generata dalle lacrime versate dal dio Apollo, esiliato da Zeus nel paese degli Iperborei a causa dell'uccisione di Asclepio.  Questa versione, risalente almeno alla fine del IV secolo, è legata al fatto che i Celti furono identificati dai Greci - ed accettarono essi stessi di esserlo - con gli Iperborei.  Infatti Plutarco (Camillo 22) riferisce che, a proposito del sacco gallico di Roma, Eraclide Pontico, autore del III secolo a.C., scrisse che un esercito di Iperborei, venuto da lontano, aveva conquistato Roma.  Servio, nel suo commento all'Eneide (X.179), riferisce che Pisa fu fondata da Piso, re dei Celti, figlio di Apollo Iperboreo.  Dunque, da un certo momento in poi i Celti furono considerati, e si considerarono, Iperborei.  Come si è visto nel § 13, gli Iperborei che mandavano offerte a Delo erano un popolo sulla cui esistenza non c'erano dubbi presso i Greci; pertanto, se gli Iperborei furono identificati con i Celti, significa che le terre dei primi si trovavano in qualche zona dell'Europa centrale celtica e che la prestigiosa denominazione di "Iperborei" fu estesa, prima dell'età ellenistica, a tutto il popolo dei Celti.  Del resto, la localizzazione padana dell'Eridano, le cui sorgenti sarebbero state abitate dagli Iperborei, fece sì, quasi fatalmente, che quando i Celti si stabilirono nel bacino del Po anche l'orizzonte geografico degli Iperborei si spostasse o si estendesse fino alla Gallia Cisalpina.
Al tempo in cui Apollonio Rodio scriveva sulle lacrime d'ambra di Apollo Iperboreo, a Delo continuavano a giungere, come in passato, le offerte degli Iperborei, e dunque c'è da chiedersi se le due cose non avessero avuto un legame fra loro.  Quale che fosse tale legame, sembra certo che, oltre agli Etruschi, anche i Celti, e specialmente i Celti nord-italici, si erano appropriati e resi protagonisti della mitologia dell'ambra.
Non è escluso che anche il ruolo svolto da Cigno, re dei Liguri, entro la leggenda di Fetonte, testimoniasse un'appropriazione della leggenda da parte di altre popolazioni nord-italiche che vivevano lungo il corso del Po-Eridano.  In ogni caso, però, resta che la saga di Cigno ricevette una versione letteraria ad opera dei Greci.
Prima di ritrovare un'epoca in cui l'ambra fu nuovamente in auge bisogna attendere la fine dell'età repubblicana.  Grazie allo spostamento delle frontiere in direzione dell'Europa centrale, grazie ai contatti commerciali e diplomatici con le genti che potevano procurarsi la materia prima e grazie alla ricchezza dei ceti elevati dell'impero si riaprì il flusso dell'ambra grezza verso il Mediterraneo e rifiorì, tra il I secolo d.C. e gli inizi del III, una nuova arte dell'ambra scolpita, ed ancora una volta l'area alto-adriatica fu protagonista di tali commerci e di tale arte, come provano le numerosissime ambre di Aquileia.  Ma in questa sede non tratteremo i problemi delle ambre "romane", soprattutto perchè non sembra che durante l'impero fossero state concepite nuove leggende sull'ambra o si fosse rinnovato il patrimonio mitico del passato.  Gli autori di età imperiale non fecero che ripercorrere le tracce dei miti segnate dalla tradizione greca, come si è visto nei primi paragrafi di questo libro. 
Prima di concludere, si segnalerà un interessante manufatto in ambra che potrebbe costituire un esempio del periodo di trapasso dalla fase preromana a quella romana.  Si tratta di un piccolo (alt.cm.2) ritratto maschile in ambra (tav.VIII.19) conservato al Museo Archeologico di Firenze e proveniente dalle collezioni medicee.  Va premesso che non si può avere la certezza che si tratti di un manufatto antico, perchè è noto che nel Rinascimento si producevano intagli in stile greco e romano e che nelle collezioni dei Medici e dei Lorena sono pervenuti sia reperti antichi che gioielli dei secoli XVI-XVIII.  È però da notare che nel '500, '600 e '700 l'ambra era raramente impiegata per realizzare gemme.  Se si trattasse di un opera antica, cosa che ritengo probabile, dovremmo pensare ad un'opera d'arte tardo-ellenistica, ed anche in questo caso ricadremmo in un'epoca in cui non si usava frequentemente l'ambra.  Il reperto mostra segni di una forzatura per staccare il medesimo da un'incastonatura, e questo farebbe propendere per l'ipotesi di un oggetto antico.  Il personaggio raffigurato è calvo, dal naso aquilino, con volto in leggera torsione sul collo.  Si direbbe che sia il ritratto di un romano da incastonare su un anello, secondo un uso che si diffuse presso alcuni aristocratici romani dal II secolo a.C.  Il pezzo è privo di confronti precisi  e i problemi relativi alla sua eventuale antichità consigliano di non ampliare il discorso sulla sua collocazione entro l'arte ellenistico-romana.

Tutto sommato, i due livelli di documentazione sull'ambra, quello letterario e quello archeologico, non hanno molti contatti fra loro.  Lo studio della mitologia serve poco a comprendere la produzione di ambre lavorate, e viceversa.  Per altro verso, va detto che i pochi contatti documentabili fra i due livelli sono estremamente interessanti: la mitologia greca relativa all'ambra sembra essersi sviluppata in connessione con un periodo arcaico in cui i Greci erano molto interessati alle importazioni di questa sostanza; la dimensione padana e gli sviluppi padani della leggenda fiorirono intorno al V secolo in connessione con l'interesse etrusco e specialmente etrusco-padano per l'ambra.  Come si è visto, qualche ulteriore approfondimento e qualche ipotesi possono essere avanzati in margine ai rapporti fra leggenda e realtà storica del commercio dell'ambra.  Nonostante tutto, però, sussiste un dislivello difficilmente superabile fra i due tipi di documentazione.  Forse tale difficoltà di individuare punti di contatto è dovuta al fatto che il complesso di leggende si costituì in ambito greco nell'età arcaica e si cristallizzò nella forma letteraria delle tragedie attiche del V secolo; ma quando le leggende stavano ricevendo la loro massima consacrazione letteraria, l'interesse reale dei Greci per l'ambra era già venuto meno, e l'uso di monili in ambra era già divenuto un fenomeno essenzialmente italico.  Si potrebbe soltanto supporre che la fioritura di un artigianato tarantino dell'ambra nel V secolo avesse determinato la localizzazione di un'isola Elettride al largo di Taranto, similmente al caso delle Elettridi polesane.  Come nel caso di tutti i complessi mitologici greci di cui si appropriarono gli Etruschi e gli Italici, così anche nel caso dei miti dell'ambra ci furono sviluppi italici della leggenda, i quali costituiscono però una piccola sezione nel sistema complessivo.  Per altro verso, va detto che noi conosciamo soltanto i miti greci dell'ambra, mentre delle concezioni etrusche non sappiamo quasi nulla (si può solamente pensare che Dedalo e i demoni alati femminili vi avessero avuto qualche ruolo).  Ad esempio, non sappiamo perchè gli Etruschi e gli Italici privilegiassero le teste di satiro, e non, poniamo, le teste di guerriero o di Acheloo.  Le teste femminili erano considerate teste di ninfa?  Infatti spesso i satiri si accompagnavano, nell'immaginario dionisiaco, a menadi o ninfe.  Queste eventuali ninfe erano forse le Eliadi?  E perchè gli Etruschi e gli Italici portavano al collo pendenti raffiguranti questo genere di soggetti?  Perchè nell'Italia meridionale si sono ritrovate parecchie sculture di demoni femminili alati in ambra?  Molte sono, come si vede, le domande destinate a rimanere senza risposta.  E tale vuoto nelle nostre conoscenze invita alla prudenza nello studio dei rapporti fra mitologia ed evidenza materiale.  Se non conosciamo bene la natura di tali rapporti, non possiamo certo sostenere che essi non esistevano, e questo specialmente nel periodo della massima espressione artistica relativa all'ambra, il V secolo, quando, parallelamente, gli Etruschi e gli Italici fecero intagliare capolavori di scultura, mentre i poeti greci realizzavano capolavori letterari.

ABBREVIAZIONI

"AAAd"  "Antichità Alto-Adriatiche"
"ABSA"  "Annual of the British Scool at Athens"
"AIV"  "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti"
"AJA"  "American Journal of Archaeology"
"AqN"  "Aquileia Nostra"
"ASAA"  "Annuario della Scuola Italiana di Atene"
"Atti CeSDIR"  "Atti del Centro Studi e Documentazione sull'Italia Romana"
"BCH"  "Bulletin de correspondence hellénique"
"BdA"  "Bollettino d'Arte"
CIL:  Corpus Inscriptionum Latinarum
EAA : Enciclopedia dell'Arte Antica
"GRBS"  "Greek, Roman and Byzantine Studies"
IG:  Inscriptiones Graecae
"JDAI"      "Jahrbuch des deutschen archäologischen Instituts"
"JHS"  "Journal of Hellenic Studies"
LIMC : Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae
"MAL"  "Memorie dell'Accademia Nazionale dei Lincei"
"MDAI(A)"  "Mitteilungen des deutschen archäologischen Institutes (Athenische Abteilung)"
"MDAI(R)"  "Mitteilungen des deutschen archäologischen Institutes (Römische Abteilung)"
"MEFRA"  "Mélanges de l'Ecole Française de Rome (Anti-quité)"
"NS"  "Notizie degli Scavi di Antichità"
Pauly-Wissowa:  Real-Encyclopädie der klassischen Alter-tumswissenschaft, a cura di C.Pauly - G.Wissowa e W.Kroll, Stuttgart 1892-
"PP"  "La Parola del Passato"
"QUCC"  "Quaderni Urbinati di Cultura Classica"
"RAL"  "Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei"
"REL"  "Revue des Etudes Latines"
"RFIC"  "Rivista di Filologia e di Istruzione Classica"
Roscher:  Ausführliches Lexikon der griechischen und römischen Mythologie, a cura di W.H.Roscher, Leipzig 1884-
"SE"  "Studi Etruschi"

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P.Zazoff, Etruskische Skarabäen, Mainz 1968



INDICE ANALITICO
Abalo 54
Abano 35
Abruzzo 119
Absirto 34, 36, 66
Acaia 54
Acheloo 139, 144, 150
Achille 98-9
Acquario 20
Adige 64
Adria 23-24, 46-47, 50, 87, 93-4, 97, 120-1, 129-30, 137, 139-141
Adriatico 7, 24, 27, 29, 37-38, 40-41, 43, 48, 52, 55, 63, 65-6, 89, 97, 104
Aegle 26
Aestii 56
Aetherie 26, 45
Aetos 67
Africa 31
Afrodite 27, 66, 109, 141
Aiace 98
Aitherie 45
Aleria 119, 130, 134
Alianello 73
Alicarnasso 89
Allumiere 60
Alpi 55
Alsazia 59
Altea 30
Altino 95
Ambracia 66
Amiro 35
Anactorio 66
Andro 42
Api 11, 24
Apollo 34-35, 44-45, 89, 147-8
Apollonia 66
Apsirtidi 36-37
Aquileia 35, 40; 146
Arciere 12
Arezzo 114
Arge 43-44
Argo 33, 88
Argonauti 34-36, 45
Armento 109, 118, 129-30, 132-3, 135-6, 140-1
Arnoaldi 120
Arpie 114, 117, 133, 144
Arsenale (necropoli dell') 121
Artemide 30, 42, 45, 68-70, 80, 83, 85, 101, 135
Artemisio 85
Asclepio 143
Ascra 45, 57
Ashtar 27
Asia Minore 65-6, 86, 142
Asperg 84
Assurbanipal 81
Atella (Campania) 131, 139
Atella (Basilicata) 136
Atena 34, 68, 85, 99
Atene 39, 43, 67
Atenica 110, 130, 140-1
Atlante 28, 99, 132
Atrianorum paludes 94
Attentu 60
Attica 43
Auriga 16-17
Aurora 12, 27, 144-5
Austeravia 55
Austria 86
Baden-Württemberg 84
Balena 17
Baltico 8-9, 38, 40, 58, 83, 87-8
Banzi 132
Bari 132
Basilia/Basileia 54
Basilicata 141
Bedenkos 20
Belmonte 72, 78, 80, 83-4, 130, 133, 138
Beozia 58, 60
Bes 83
Bettona 142
Bisenzio 78
Bismantova 61, 63
Bocherso 20
Bodinco 20, 51
Boemia 97
Bohemitsa 67
Boi 90
Bologna 60, 71, 73, 87, 120-1, 129-30, 139-40
Borea 58
Borgo Panigale 60
Brennero 64
Brioni 37
Britannia 38, 96
Buccino 134
Caç±ak 110
Caere 145
Caistro 21
Calabria 72
Calatia 72
Calcante 104
Calcidica 67
Calidonii 30
Campania 34, 104, 136
Canahan 60
Canal Bianco 120
Cane 29
Canosa 98, 110, 118, 130-4, 136
Capua 136, 140
Caria 30
Carife 134
Caristo 42
Carnuntum 55
Cassiteridi 51, 97
Castelbellino 72, 84
Castel di Decima 72
Castiglione Casauria 131
Caucaso 23, 28, 99
Cavallara di Ostellato 94
Cecoslovacchia 63
Cefallonia 60
Cefalo 27, 144
Cefisiade (lago) 31
Ceî 43
Celti 19, 34, 146-8
Ceramico 67
Cerinea 48-49, 135
Certosa 120-1
Cerveteri 72, 118, 134
Chaucitsa 67
Cherso 37, 41
Chiaromonte 72-3, 85, 138
Chio 67-8, 80
Cicladi 37
Ciclopi 143
Cicno 21
Cigno 13, 15, 17-18, 23, 25-26, 144
Cina 43
Cipro 65
Circe 66, 92
Cirene 68
Cissa 36
Cleonimo 96
Climene 11, 13, 15, 23-25
Climeno 26
Cnosso 67
Cocalos 33
Cocullo 119
Colchide 34
Comacchio 98, 102-3, 135
Contarina 47-49, 94, 97
Corcira 65-66
Corfù 66
Corinto 65-67, 80
Coronide 35
Corsica 130
Cortona 89
Cos 66
Creta 32-33, 43, 60
Croazia 73-4, 134
Crotone 103
Crotone (=Cortona) 89
Cuma 34, 134, 137
Cupramarittima 119
Cureti 30
Dalmazia 32, 37
Danubio 21, 34, 43, 49, 58
Daunia/Dauni 66, 103-4, 136
Dedalo 11, 32-33-34, 88, 90-3, 96, 98-102, 104, 135, 143-4, 150
Delfi 89
Delo 42, 45, 69-70, 143
Deucalione 25, 89-91
Dezeva 109
Diakata 60, 63
Diomede 48
Dionisio il veccio 90
Dionisio il giovane 90
Dioniso 98, 139
Dioscuri 35
Dioxippe 26
Dicteo (antro) 60, 63
Dodona 42, 89
Eeta 66
Efeso 68,101
Efesto 23, 68, 78, 85-6
Egeo 67, 88
Egitto 78, 83
Egle 45-46
Elba 39
Eldorado 37
Electrione 66
Elettride 38, 40, 138
Elettridi 7, 11, 31-32, 36-38, 41, 92-94, 96-7, 101, 104, 143
Elettrini96
Elettro (palude) 29, 31
Eleusi 67
Eliadi 13, 15-18, 21, 30, 34-36, 45-46, 49, 51-52, 142, 146
Elpie 66
Emilia 61
Emporia 68
Encomi 65
Endoios 101
Eneti 55
Eoo 12
Eos 27, 144-5
Epafo 11, 25
Epidamno 66
Epiro 89
Eracle/Ercole 23, 25, 29, 41, 45-49, 92, 94, 97, 100, 135
Eretainos 39, 96
Eretria 66, 91
Eretrieo 91
Eretrio 66
Eridano 7, 12-27, 33-35, 37-39, 40-41, 45-46, 49-51, 54, 57-8, 62, 65, 96, 140, 144, 147
Eriteide 46
Espera 46
Esperia 7
Esperidi 45, 49
Esperie (ninfe) 12, 45
Espero 47, 145
Este 143
Eto 12
Etolia 30
Etruschi 47-9, 70, 80, 84, 86-91, 93, 96-100, 103-4, 109, 117, 137, 139, 144-8, 150-1
Eubea 42, 66
Eurinome 96
Euristeo 48
Europa 41, 49-50, 58-9, 143, 145-7
Falconara 108, 117, 132, 140
Falerii 71, 80
Farina-Cardito 72
Febo 11
Felsina 87, 142
Fetonte 9, 11-30, 35, 41, 46, 51-52, 54, 66-7, 92-4, 140, 143-6
Fetontiadi 21
Fetusa 16
Fiume 16-19, 21
Flegonte 12
Focei 65
Fondo Paviani 64
Fonte Veneziana 113
Fortuna 18, 72
Francavilla Marittima 72
Francia 29
Frattesina di Fratta Polesine 41, 61-5
Gabii 49
Galazia/Galati 20, 142
Gallia/Galli 87-90, 102, 147
Gargano 131
Gerione 92
Germania/Germani 9, 54-55, 59, 86
Giasone 34-35
Giove 11, 17, 25-26, 47, 91
Giuliano 55
glaesum 56
Glesaria 55
Golasecca 143
Gorgone 84
Grafenbühl 84-5, 138
Grande Sirte 29
Greci/Grecia 9, 24, 31, 36, 45, 47-48, 57, 59, 62, 65-7, 69-70, 83, 85-6, 90, 96, 103, 137, 140, 143, 148-9
Grecia 28, 33
Guioni 54
Helie 26
Helios 13, 15-16, 27, 66, 144
Hera 67-8, 101
Heraion 101
Hermes 117
Iberia 23
Icaria 88
Icaro 11, 32-33, 90
Ikaros 101
Ilea 49
Ilizia 43
India 52, 54
Inghilterra 59
Io 24-25
Ionia 80, 83
Ionio 89
Iperborea 49
Iperborei 27, 35, 39, 41-45, 47, 48-49, 58, 147-8
Iperoche 43-44
Ischia di Castro 60
Isonzo 40-41
Istria 36, 38
Istri 36
Istris 37
Istro 21, 34, 49
Itaca 67
Italia/Italici 57, 62, 67, 78-80, 83, 85-6, 88-9, 93, 143-4, 146
Jugoslavia 104, 137
Kaß 65
Kertsch 73
Kompolje 134
Labirinto 32, 101
Lacerea 35
Ladone 46
Lampetia 16
Lampetie 26
langhe 31
Laodiche 43-44
La Rustica 71
Lase 144
Lazio/Latini 15, 71, 145
Lavinio 71, 87
Legnago 63-4
Lemno 101
Leone 12
Lero 30
Leto 35
Liburnia 36
Liburnidi 37
Licia 43
Lido di Venezia 93
Ligure (mare) 24, 40
Liguri/Liguria 15, 25-6, 49, 144
Lindo 68
Lipari 63
Loreo 94
Loreto Aprutino 72
Lucania 104, 132, 136
Lucifero 27-28, 145
Lusazia 87
Macedonia 67
Maestro delle sfingi alate 135, 137, 140, 142
Maestro del Dioniso di Boston 99-103
Maestro di Dedalo e Icaro 99-101, 103, 144
Magna Grecia 84, 114
Maliaco (golfo) 42
Manfredonia 61
Marcii 104
Margherita (giardini) 121
Marsia 104
Marsiglia 87
Marsiliana d'Albegna 71, 80
Marzabotto 98, 121, 130, 134, 137, 140
Mater Matuta 72, 145
Medea 34, 66
Mediterraneo 8-9, 74, 144
Meduacus 96
Meleagridi 30-32, 36, 45, 50
Meleagro 30, 50, 52
Melfi/Melfese 132, 135-6, 140
Merope 23, 26, 66
Metaponto 114, 132
Metaxata 60
Meteia 35
Metuonide 54
Micene 59
Mileto 30, 50
Minosse 32, 101
Mnesarco 100-1
Monfalcone 40
Montegiorgio 72, 130
Montagnana 64
Montegrotto 35, 41
Monteleone di Spoleto 118, 134
Monte Libretti 142
Narce 71-3, 78, 80
Nereo 46, 101
Nero mare 37, 43, 49, 73, 88
Nerone 55
Nilo 17, 49
Nin 60
Ninfe 144
Nola 139
Noto 17
Novilara 72
Novi Pazar 109, 114, 130, 140-1
Numana 72, 119
Oceano 16, 21, 27-29, 38, 54, 99, 143
Odisseo 92
Oleno 43
Orfeo 46
Olimpia 48
Olimpo 16-17
Oliveto Citra 132-3, 136
Opi 43-44
Orione 17, 20
Osteria dell'Osa 63
Orvieto 98, 103
Padana 92, 104, 142-3
Padova/Patavini 73, 96, 143
Paestum 134
Pannonia 55
Pelasgi 33, 88-93, 96, 101
Pelasgo 91
Perachora 67, 78, 80, 85
Perdix 34
Persiani 48
Pettorano sul Gizio 119
Peucezi 136
Phoebe 26
Phoibe 38
Piazza Monfalcone 60, 63
Piceno/Piceni 70, 75, 84-7, 103, 136-7
Pirene 49
Pirenei 23, 49
Piroo 12
Pirra 25, 91
Pisciolo 132
Pitagora 100, 103
Pitagora (scultore) 103
Pitagorici 18
Pitea 54
Po 8, 19-21, 24, 30-31, 36, 38, 40-41, 46-47, 50-52, 64, 93, 95-6, 98, 138, 144
Pittore di Gela 120
Pittore di Leningrado 121
Polesine 8, 41, 94
Policrate 101
Polles 104
Polonia 87
Pomerania 87
Ponte S.Pietro 60
Ponto 37
Populonia 61, 130, 134, 139-40
Praeneste 71-2, 80-1, 85, 131-2, 139, 141
Pratica di Mare 71, 78, 80
Prometeo 28, 49, 99
Prozor 74, 109
Puglia 104, 135, 141
Pullaria, Pullarie 32, 36
Punta (isola di) 40
Pyrgi 145
Rasca 109
Ravenna 93
Reggio 103
Resia 64
Retrone 39
Rhode 66
Roccanova 119
Rodano 24, 35, 39-40, 46, 87, 143
Rode 24
Rodi 66-8
Roma/Romani 31, 72, 90, 145
Roscigno 132, 138
Rovigo 61
Russia 54, 81
Rutigliano 131, 133, 136, 140
Ruvo 132, 135-6, 138, 141
Sabina 142
Sala Consilina 72, 144
Salamina 60
Samo 83, 88, 100-3
S.Basilio di Ariano Polesine 94
S.Canziano del Carso 41
S.Martino in Gattara 121
Sanniti 103, 136
S.Lucia di Tolmino 41, 143
S.Antonio (isola di) 40
S.Omobono 72
Sardegna 33
Satricum 72-3, 78, 80
Saturno 21
Sciti 42
Scizia 42-43, 49, 54
Scorpione 12
Selinunte 135
Serbia 109-10, 130
Serpe 12
Settentrioni 12
Sibari 73
Sicani 33
Sicilia 32-33
Side 18
Sinope 43
Siracusa 68, 85, 90
Sirene 114, 135, 144
Slovenia 74, 85
Smilis 101
Sole 11-12, 14-15, 25, 53, 145
Sparta 68, 80, 85
Spina 87, 89-91, 94, 97-8, 120-1, 129-31, 134, 140
Spinetico (ramo) 89
Stenelo 15
Striges 144
Q.Sulpicio Massimo 15
Svizzera 85-6
Taglio di Po 94
Talos 101
Taranto 38, 109, 114, 135-8, 141-3
Teano 142
Temide 46
Tenages 66
Teno 42, 67
Teodoro 97, 101-3
Tetide 16, 27, 98-9
Terra 12, 21
Tessaglia 88-9
Teutoni 54
Thesan 144-5
Ticino 143
Timavo 29, 35
Tirinto 59, 63
Tirreno 28, 88
Tisbe 60
Tolve 135
Toro 12
Torrevecchia Teatina 119
Trento 83
Trinacria/Trinakia 16
Tyche 18
Ulu Burun 65
Umbri 90
Ungheria 87
Usil 145
Valle d'Ansanto 134
Vasto 119
Veglia 37, 41
Veio 71, 78, 80, 86
Velletrio 118
Venere 28
Veneti 55, 72-3, 143
Venetia 20
Venezia 37, 50, 93
Vergina 67
Verucchio 71-4, 143
Vetulonia 71-3, 78, 80, 83, 86
Via Lattea 18
Vicenza 39
Villalfonsina 119
Vistola 39
Volterra 142-3
Vrebac 73
Vulcano 12
Vulci 47, 73, 84, 117, 142
Wessex 59
Xanto 117
Zara 60
Zefiro 21
Zeus 11, 15, 19, 26, 46, 89, 135, 143



INDICE GENERALE
Prefazione p.5
Introduzione p.7
PARTE PRIMA. MITOLOGIA
1 Fetonte, le Eliadi e Cigno p.11
2 L'Eridano e gli astri p.16
3 Il mito nei tragici greci p.22
4 Caratteri dei miti dell'ambra p.27
5 Le Meleagridi e l'ambra p.30
6 Dedalo e Icaro p.32
7 Gli Argonauti p.34
8 Le isole Elettridi p.36
9 Le offerte degli Iperborei p.41
10 Eracle alle foci del Po p.45
11 Critici della mitologia p.49
12 La vera origine dell'ambra p.53
PARTE SECONDA. STORIA E ARCHEOLOGIA
13 L'età micenea p.57
14 L'età arcaica p.65
15 L'ambra in Italia durante l'età arcaica p.70
16 Pelasgi ed Etruschi alle isole Elettridi p.88
17 L'ambra e gli intagliatori di gemme p.97
18 Le ambre dedaliche p.103
19 Gli Etruschi e le sculture in ambra p.136
20 I Galli e le leggende dell'ambra p.144
Abbreviazioni p.150
Bibliografia p.151
Indice analitico p.154
Indice generale p.161
I principali luoghi di rinvenimento di ambre in Italia trattati nel testo




I principali luoghi di rinvenimento di ambre in Jugoslavia trattati nel testo
OGGETTO: rendicontazione contributo stampa di un libro


Al Consiglio Nazionale delle Ricerche (Comitato 08)
Piazzale Aldo Moro 7
Roma

In seguito alla concessione del contributo C.N.R. alla stampa del mio libro L'ambra e l'Eridano. Studi sulla mitologia e il commercio dell'ambra in età preromana (capitolo 106027; impegno 0891114500000; matricola 87717; numedro mandato 47430; data 2.10.91; esercizio finanziario 1991; importo L.3.000.000) vi invio quattro copie del volume, pregandovi di farne avere una, se possibile, al prof.Mazza.  Allego inoltre una dichiarazione dell'editore relativa alle spese sostenute per la pubblicazione.
Con i migliori saluti

(prof.Attilio Mastrocinque)
Cf., per es., A.Spekke, The ancient Amber Routes and the geographical Discovery of the eastern Baltic, Stockholm 1957; J.M.De Navarro, Prehistoric Routes between N.Europe and Italy defined by the Amber Trade, in "Geographical Journal" 46, 1923, pp.481 ss.; E.Sturms, Der ost baltische Bernsteinhandel in der vorchristlichen Zeit, in "Jahrbuch des Baltischen Forschungsinstituts" Commentationes Balticae, I, 1953; AA.VV., "Savaria" 16, 1982.
Si fornirà la bibliografia nella seconda parte del libro, dedicata all'archeologia.
F.W.Waldmann, Der Bernstein im Altertum, Fellin 1883, pp.9 ss. e pp.68 ss.
Bibliografia nella prima parte del libro, dedicata alla mitologia.
CIL VI, 33976; cf. J.Diggle, Euripides Phaeton, Cambridge 1970, pp.10 ss.
Cf.L.Duret, Néron-Phaéthon ou la témérité sublime, in "REL" 66, 1988, pp.139 ss.; sull'evoluzione del mito di Fetonte in età imperiale, e oltre l'età imperiale, cf. R.Chevallier, Le mythe de Phaéthon d'Ovide à Gustave Moreau, in "Caesarodunum" 17 bis, 1982, pp.387 ss.
C.Robert, Die antiken Sarkophag-Reliefs, III.3, Berlin 1919, nr.405 ss.; Diggle, pp.205 ss., ove sono menzionati altri monumenti raffiguranti il mito di Fetonte.
Non è escluso che il richiamo alla Sicilia fosse pertinente ad una tradizione antica, poichè già Omero (Odissea XII.127 ss.) parlava delle Eliadi Lampetia e Fetusa mandate a pascolare gli armenti del Sole nell'isola di Trinacria (o Trinakia che dir si voglia).
Cigno viene immaginato come un vecchio, probabilmente perchè i capelli bianchi potevano evocare e prefigurare la bianchezza del cigno nel quale egli si sarebbe trasformato.  Già in Esiodo (fr. 237 Merkelbach-West) Kyknos era un eroe dal bianco capo; cf. Teocrito, XVI.49.
Come nel racconto ovidiano.
Sembrano seguire la "vulgata" anche gli Scolii a Euripide, Ippolito 733 e 736, p.91 Schwartz, lo Scolio Bernese a Virgilio, Bucolica VI.12 e lo Scolio a Dionisio Periegeta 288, ma su quest'ultima fonte ci soffermeremo più avanti.  L'accenno alla leggenda in Platone, Timeo 22 c e quello in Quinto di Smirne (V.625-630) non permettono di distinguere l'origine delle tradizioni seguite.
Cf. Diodoro Siculo V.23.2.
F.Beaufort, Karamania, London 18182, p.156 (ove non si capisce se il cigno e il giovane costituissero un solo segno zodiacale o due).
Sulla costellazione dell'Eridano cf. R.Brown, Eridanus: River and Constellation, London 1883.  Il Diggle, Euripides Phaeton, pp.10 ss.(sulla scia del Robert e del Müller) nega che il catasterismo risalisse ad Esiodo, mentre G.Knaack, in Roscher, Ausführliches Lexikon der klass.Mythologie, s.v.Phaeton, c.2180, valorizza lo Scolio strozziano a Germanico, Aratea (Germanici Caesaris Aratea cum Scholiis, ed. A.Breysig, Berlin 1867, p.174), secondo cui Esiodo avrebbe collocato l'Eridano tra gli astri.  Tuttavia per Eratostene (XXXVII), per lo Scolio a Germanico, p.98 e per Servio (Commento a Eneide VI.659) fu Arato che identificò la costellazione del Fiume con l'Eridano.
Cicerone, I fenomeni146, aveva tradotto la parola con funestum.
Con ogni probabilità si tratta del Po, detto Bodinco dagli indigeni, secondo Polibio (II.16) e Plinio (Storia naturale III.20; 121-122).  In Esichio abbiamo Bedenkos (emendamento del Müllenhof al testo, che dava Bebeêkos), nome dato all'Eridano dai Veneti.  Sull'idronimo Bodincus (ligure secondo Plinio): C.Battisti, Bodincus e Boite, in "Archivio per l'Alto Adige" 41, 1946-47, pp.46 ss.; G.Alessio, L'inquadramento di Bodincus e Padus nel lessico mediterraneo, in "Riv.di Studi Liguri" 15, 1949, pp.229 ss.; H.Krahe, Zu einigen alten Gewässernamen aus idg. Bhedh-, in "Beiträge zur Namenforschung" 14, 1963, pp.180 ss.; G.B.Pellegrini - A.L.Prosdocimi, La lingua venetica, I, Padova-Firenze 1967, pp.296-8.
La confusione non è risolta dallo Scolio al verso 355, ove si spiega l'espressione "molto compianto" per il fatto che le Eliadi vi versavano lacrime d'ambra.
Manilio I.440 e V.14 nomina al plurale "i Fiumi"; nel Liber Hermetis Trismegisti 71.4 è già presente la confusione fra Eridano e Acquario; cf. F.Boll, Sphaera, Leipzig 1903, pp.134-8.  Sulla costellazione del Fiume cf. recentemente A.Le Boeuffle, Les noms latins d'astres et de constellations, Paris 1977, pp.139-140; 203, ove bibliografia anteriore.  
Igino, Astronomia II.42.2; Scolio a Germanico, p.185 Breysig.
Cf. anche Esichio, s.v. élektros: "metallo aureo.  Dicono che venisse portato nella terra celtica dall'Eridano.  Le lacrime che stillano dai pioppi delle Eliadi".
Il primo è un fiume dell'Asia Minore, il secondo è il Danubio.
Sui vari alberi da cui si credeva che scendesse l'ambra cf. F.Waldmann, Der Bernstein im Altertum, Fellin 1883, p.12, n.18.
Ben poco si sa di Filosseno, Nicandro e Satiro.  Il primo era un poeta ditirambico (436-380 a.C.), il secondo (II sec.a.C.?) era l'autore di un'opera relativa alle metamorfosi.  Forse Satiro è da identificarsi con l'autore di lavori relativi alle pietre preziose usato spesso da Plinio.  Lucrezio, V.405, afferma che la storia di Fetonte era stata cantata "dagli antichi poeti greci".
Fr.771-786 Nauck2.  Sulla ricostruzione del Fetonte cf. J.Diggle, Euripides Phaeton, Cambridge 1970.
Su tutto ciò cf. Diggle, op.cit.  Per un aggiornamento cf. L.Burelli, in I tragici greci e l'Occidente, Bologna 1979, pp.131-140.
Carete, in F.Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker, 125, F 8.
Fr.68-73a Radt.
Cf. E.Culasso Gastaldi, in I tragici greci e l'Occidente, a cura di L.Braccesi, Bologna 1979, p.55 (cf. la leggenda di Pirene, eponima dei Pirenei, e di Eracle iperboreo: infra, § 10). A.Grilli, Eridano, Elettridi e via dell'ambra, in Studi e ricerche sulla problematica dell'ambra, I, Roma 1975, p.281, propone invece di riconoscere in questa regione l'Iberia del Caucaso.  Circa altri elementi che connettono Fetonte, Cigno e il Caucaso cf. G.Capovilla, Le ÔHLIADES di Eschilo.  Problemi sull'Eridanos, sugli Hyperboreoi, su Kyknos e Phaeton, in "Rendiconti Istituto Lombardo" 89, 1955, p.427.
Cf. L.Braccesi, Grecità adriatica, Bologna 19772, pp.47-48; E.Culasso Gastaldi, in I tragici greci e l'Occidente, pp.54-5.  Sul significato di Adrianài  (= "di Adria") cf. Braccesi, op.cit., p.48, n.100; diversamente: Grilli, op.cit., pp.279 ss.; S.Bianchetti, Plwta; kai; poreutav. Sulle tracce di una periegesi anonima, Firenze 1990, p.83.  Sull'interpretazione delle vesti scure delle genti padane come segno di lutto per la morte di Fetonte, cf. anche Polibio II.16; Pseudo-Scimno 395-41; Diodoro V.23.4; Plutarco, Sul ritardo della giustizia divina 12 (557 D).
Scolio a Omero, Odissea XVII.208; sulla questione cf. Diggle, pp.31-32.
Cf. Appiano, Libro Mitridatico 95.
Come ha messo in luce il Braccesi, Grecità adriatica, pp.180-4.  In precedenza si era pensato che Ovidio avesse liberamente rielaborato la tradizione euripidea (J.Braune, Nonnus und Ovid, Greifswald 1935; cf. Diggle, p.183), opure che la vulgata risalisse ad un componimento poetico alessandrino posteriore ad Arato, componimento che dovrebbe essere postulato (G.Knaack, Quaestiones Phaetonteae, Berlin 1886, pp.22 ss.; Id., in Roscher, s.v. Phaeton, c.1287; sulla questione cf. G.D'Ippolito, Studi nonniani. l'epillio nelle Dionisiache, Palermo 1964, pp.253 ss.; ulteriori dati bibliografici in F.Bömer, P.Ovidius Naso Metamorphosen, I, Heidelberg 1969, pp.220 ss.).  Contro l'ipotesi del componimento alessandrino si era pronunciato autorevolmente il Diggle, pp.180-1.  W.Vollgraff, Nikander und Ovid, Groningen 1909, pp.105-9, non esclude un influsso di Nicandro su Ovidio.
Su tutti questi argomenti cf. Braccesi, op.cit., pp.181-4.  Secondo il Capovilla, op.cit., pp.452-4, Eschilo, nel Kyknos, avrebbe per primo fatto di Cigno - che nello Scudo di Esiodo era un avversario di Eracle - un re dei Liguri.  A pp.471, il Capovilla spiega la connessione del mito di Cigno, re dei Liguri, entro il ciclo fetonteo per il fatto che un tipo d'ambra era detto lingurion, nome che evocava l'etnico dei Liguri.  Sull'ambra (lyngurion) prodotta in Liguria, secondo una tradizione leggendaria, cf. Teofrasto, Sulle pietre 29, 50.
Cf. Culasso Gastaldi, in I tragici greci e l'Occidente, p.51, n.83, con riferimento a Stesicoro, di cui si conosce troppo poco; e si potrebbe aggiungere che non conosciamo le versioni di Filosseno, di Nicandro e di Satiro, cui Plinio attribuisce una certa importanza.
Fr.311 Merkelbach-West.
Con Igino concorda, anche alla lettera, il testo di un commento dell'opera astronomica di Germanico, il padre di Caligola: Scolio Strozziano, pp.174-5 Breysig (= fr.311 Merkelbach-West).  Il commentatore probabilmente seguiva Igino, cf. Diggle, p.19. Forse anche Plutarco (Sulla tranquillità dell'animo 466 E) si rifaceva ad una tradizione secondo cui Helios non concedeva a Fetonte il carro; cf. Diggle, p.22.  Il Diggle, pp.15-27, limiterebbe l'apporto esiodeo solo al tema delle lacrime d'ambra.
Cf. anche, su questo particolare, Igino, Astronomia II.42.  Le Eliadi che preparano il cocchio per Fetonte sono raffigurate in uno stucco della Casa Farnesina di Roma (I secolo a.C.): cf.Diggle, p.210.
Cf. Knaack, in Roscher, s.v. Phaeton, cc.2181-2.  Anche Lattanzio Placido, nel suo compendio delle Metamorfosi di Ovidio (Met. II, fav.2, p.638 Magnus), attribuisce ad Esiodo e ad Euripide il tema delle lacrime d'ambra delle Eliadi.  Cf. Diggle, p.24, che pensa ad Euripide, Ippolito 739-741 e ad Esiodo, fr.150 Merkelbach-West.
Esiodo, fr.288 e 290 Merkelbach-West.  Sulla questione cf. J.Schwartz, Pseudohesiodeia, Leiden 1960, pp.301-6; 474-5.
Nella Batracomiomachia (poemetto forse del V secolo a.C., che volge in chiave ironica certi temi dell'epica) il re delle rane afferma di essere figlio di due importanti genitori che si unirono sulle rive dell'Eridano (v.20).
Papiro di Ossirinco 1358, fr.2, col.I = Esiodo, fr.150 Merkelbach-West.
"Eridano" è integrazione al testo, probabilmente esatta, di Allen.  Sul Catalogo delle donne cf. M.L.West, The Hesiodic Catalogue of Women, Oxford 1985 (sul frammento 150: pp.84-85).
U.von Wilamowitz-Moellendorf, Phaeton, in "Hermes" 18, 1883, pp.396 ss., part. 416 ss.; O.Gruppe, Griechische Mythologie, I, München 1897, p.62; Knaack, in Roscher, o.c., cc.2201-2; A.Caquot, in "Syria" 35, 1958, p.52; M.C.Astour, Hellenosemitica, Leiden 1965, pp.268-9; R.Du Mesnil du Buisson, in "Revue d'Histoire des Religions" 158, 1960, p.157; Id., in "Mélanges de l'Université S.Joseph, Beyrouth" 45, 1969, p.525; A.Mastrocinque, in "Prometheus" 4, 1978, pp.22-23.  Diversamente, il Diggle (pp.11-15) non accetta l'identificazione del Fetonte sacerdote di Afrodite con il Fetonte figlio di Helios.  Secondo il Diggle, si tratterebbe di un Fetonte che non aveva nulla a che fare con quello del mito delle Eliadi, ma, come già si è detto, questo non è credibile.  Lo sarebbe se il mito greco non fosse soggetto a trasformazioni e a varianti, ma, in realtà, sappiamo che è vero il contrario.  Anche il Cicno esiodeo, dal capo canuto, è caratterizzato da un mito del tutto diverso da quello del mito fetonteo, ma proprio la bianchezza del capo dell'eroe dette lo spunto a variazioni sul tema della sua trasformazione in cigno; cf. supra, p.17.  Inoltre va tenuto presente che in molte città greche si potevano concepire leggende locali che avevano Fetonte come protagonista: a p.66 si è accennato ad un Fetonte-Tenages rodio, la cui leggenda risulta essere del tutto diversa dalla vulgata ovidiana.  Anche il Fetonte-Apsirto corinzio non era caratterizzato da miti identici a quelli del Fetonte ovidiano, ma poichè nell'una e nell'altra saga locale l'eroe è figlio o nipote di Helios, il legame con il Fetonte dei miti più diffusi risulta certo.  Anche la tradizione cui si rifà la Teogonia esiodea non è priva di collegamenti con la vulgata, poichè il Fetonte amato da Afrodite è figlio di Eos, e dunque si tratta sempre di un personaggio della mitologia eliaca.
Cf. Du Mesnil du Buisson, Pages de mythologie syrienne, in "Rivista di Studi Orientali" 42, 1967, p.344; Id., Etudes sur les dieux phéniciens hérités par l'Empire Romain, Leiden 1970, pp.10-11 (ulteriore bibliografia in Mastrocinque, o.c., pp.18 ss.).  Sul testo biblico e il tema dell'astro del mattino cf. Caquot, o.c.
Su questa concezione cf. Mastrocinque, o.c., ove riferimenti e bibliografia.
Cf. M.L.West, Hesiod Theogony, Oxford 1966, p.339.  Ottima sintesi delle cognizioni sull'Occidente da parte dei Greci in età arcaica in E.Wikèn, Die Kunde der Hellenen von dem Lande und den Völkern der Appenninenhalbinsel bis 300 v.Chr., Lund 1937, pp.20 ss., part. 20-25.
Virgilio, Eneide VIII.149; Livio V.33.7; Plinio, Storia naturale III.150; Augusto, Lettera 32, ed Malcovati, Torino 19473, p.20.
Sulle difficoltà connesse con la mancanza di porti cf: L.Braccesi, Grecità adriatica, Bologna 19772, pp.78-84.
Polibio, in Strabone V.1.8; cf. A.Mastrocinque, Santuari e divinità dei Paleoveneti, Padova 1987, pp.84-86.  Sulla sorgente dell'Oceano cf. Esiodo, Teogonia 282.
764, F 2 Jacoby = Plinio, Storia naturale XXXVII.38.
Sulla genesi "calda" cf. anche Cassiodoro, Varie 5.2.
Cf. infra, p.54
XXXVII.42, cf. infra, p.56
IV.388 b.
Immagini 11, cf. supra, p.21
È infatti probabile che il mito delle Eliadi fosse più antico, ma nulla cambierebbe nel nostro ragionamento se dovessimo rovesciare il rapporto: sarebbe allora il mito delle Eliadi a nascere da quello di Fetonte contaminato con il mito delle Meleagridi.
Su questo mito cf. anche Bacchilide, Epinicio V.137 ss.; Apollodoro I.7.10 ss.; Id., Biblioteca I.64-73; Ovidio, Metamorfosi VIII.273 ss.; Eliano, Natura degli animali IV.42.  Cf. G.Arrigoni, Le Meleagridi in Antonino Liberale e Nicandro, in "Acme" 23, 1970, pp.17 ss.
Ateneo XIV.655 A-E; Eliano, o.c., V.27.
Å.Åkerström, Die architektonischen Terrakotten Kleinasiens, "Acta Instituti Atheniensis Regni Sueciae" XI, Lund 1966, pp.115-7.  Un'antefissa di tempio etrusco, da Capua, raffigura Artemide a cavallo e un'oca o cigno: Santuari d'Etruria (a cura di G.Colonna), Milano 1985, pp.122-3.  Teorie di pernici o di volatili del genere compaiono nella ceramografia ionica (stile di Fikellura) ed etrusca (pittore di Paride); cf. M.Martelli, in Les céramiques de la Grèce de l'Est et leur diffusion en Occident, Paris-Napoli 1978, pp.191-192.
Una certa precisione si ha soltanto nel resoconto di Clito di Mileto, in Ateneo 655 C-F, a proposito degli uccelli di Lero.  Sulle faraone e il mito delle Meleagridi cf. D'Archy Wentworth Thompson, A Glossary of Greek Birds, Oxford 1936, pp.197-200; J.Pollard, Birds in Greek Life and Myth, London 1977, pp.94; 162-3; F.Capponi, Ornithologia Latina, Genova 1979, pp.258-9.
Esichio, Fozio e Suda, s.v. Meleagrides e attagàs; cf. Aristofane, Uccelli 246-7 e Scolio al v.249.
Pseudo-Scilace 112 (Geographi Graeci Minores, I, pp.91-2); cf. Mnasea (Jacoby, vol.III B, p.300) in Plinio, Storia naturale XXXVII.38; Diodoro III.39 e Strabone XVI.4.5, che le collocano in un'isola del mar Rosso.   
Asarubas, in Plinio, o.c., XXXVII.37.
Eustazio, scolio a Iliade IX.544.
In Plinio, o.c., XXXVII.40 = 830 a Radt.
Si può interpretare così, oppure come "e le Meleagridi (isole) in esse".  Secondo Plinio (o.c., XXXVII.34), Zenotemide (autore di un Periplo) sosteneva che presso il Po vivevano degli animali detti langhe, che producevano il langurio, termine che designava l'ambra.  Quale specie di animali intendesse Zenotemide non lo sappiamo.
Plinio, o.c., III.151; Tabula Peutingeriana; Geografo Ravennate V.24; cf. B.Saria, in Pauly-Wissowa, Realencyclopädie der klassischen Altertumswissenschaft, XXIII.2, s.v. Pullaria, c.1967 (che pensa a Lussino).
Sul mito di Dedalo e Icaro cf. soprattutto Ovidio, Metamorfosi, VIII.189 ss.; Igino, Favole, 40.
Uno stadio equivale a ca.192 metri.
Del tutto simile (talora alla lettera) è il racconto di Stefano di Bisanzio, s.v. Elektrides nesoi.  Anche lo Scolio di Tzetze a Licofrone 704 dice che Fetonte cadde nel lago (o nella palude) presso l' Eridano, ove gli uccelli non riescono a volare e ove i pioppi stillano ambra.
Apollodoro III.15.8; Igino, Favole 274.
Platone, Alcibiade 121 A; Eutifrone 11 B.
Pausania II.15.1; III.19.7; VIII.53.8.
Cf. G.Becatti, La leggenda di Dedalo, in "MDAI(R)" 60-61, 1953-54, pp.22 ss.; F.Frontisi-Ducroux, Dédale. Mythologie de l'artisan en Grèce ancienne, Paris 1975, cap.I.
Pausania II.4.5; VIII.35.2; IX.11.4; 39.8; 40.3; altri dati in Frontisi-Ducroux, pp.96-7.
Diodoro IV.78; IV.30.1.
Sofocle, fr.160; 323-327 Radt. Aristofane, fr.345-355 Kock = 359-371 Kassel - Austin.  Cf. G.Pugliese Carratelli, Minos e Cocalos, in "Kokalos" 2, 1956, pp.89 ss. (= Scritti sul mondo antico, Napoli 1976, pp.225 ss.); G.Vanotti, in I tragici greci e l'Occidente, pp.112-9, ove ulteriore bibliografia.
Virgilio, Eneide VI.14-21; Giovenale III.25; Servio, Eneide VI.20-21.
Sofocle, fr.323 Radt; Servio, Eneide VI.14; Ovidio, Metamorfosi VIII.1-260; Igino, Favole 39; 244; 274.
Città e fiume della Tassaglia.  Il figlio di Coronide e di Zeus era Asclepio, dio della medicina, morto per causa di Apollo.
Il termine greco è limne, che può valere "palude" o "lago".
Cf. Braccesi, Grecità adriatica, pp.39-40; A.Mastrocinque, Santuari e divinità dei Paleoveneti, Padova 1987, p.46.
Anche Euripide pare la pensasse analogamente: Plinio, Storia naturale XXXVII.32.
Marziale IV.25; VIII.28.
Sul quale cf. F.Cassola, in "AAAd" 15, 1979, p.104.
Questa soluzione è adottata da A.Peretti, Teopompo e Pseudo-Scilace, in "Studi Classici e Orientali" 12, 1963, p.65; dal Braccesi, Grecità adriatica, p.33, e da D.Briquel, Les Pélasges en Italie, Roma 1984, p.61.
Solitamente si data quest'opera al IV secolo a.C. e la si ritiene spuria; tuttavia A.Peretti, o.c., pp.16 ss., ha ristudiato il problema riconoscendo nel Periplo due redazioni, una piuttosto antica, forse dello stesso Scilace, e una più recente, volta ad aggiornare il manuale nautico.
Forse Cherso, cf. Peretti, o.c., p.35.
Sul problema testuale su questo punto cf. Peretti, p.58.  La lettura "Elektrides" è un emendamento del Müller al testo tràdito "kleitreilitria" (evidentemente corrotto).  Il Wikèn, Die Kunde der Hellenen, cit., p.52, n.4, non accettava l'emendamento del Müller.
115, F 130 Jacoby. Sul brano dello Ps.Scimno: S.Bianchetti, Plwta; kai; poreutav. Sulle tracce di una periegesi anonima, Firenze 1990, pp.75-108.
Non è chiaro che cosa significasse "ultima fra tutte" (o "quella che sta più in alto di tutte"): forse la più settentrionale delle isole della Dalmazia (Veglia? Cherso? Brioni?).  cf. F.Vian, E.Delage, Apollonios de Rhodes, Argonautiques, livre IV, Paris 1981, p.186, n.1.  Forse però lo stesso Apollonio non aveva in mente alcuna isola geograficamente determinata.
Scrittore ellenistico che si occupò delle pietre prezione, qui citato da Plinio, o.c., XXXVII.35.
Commento a Eneide XI.271.  Cf. Braccesi, Grecità adriatica, p.50, n.104.
Cf. Braccesi, o.c., p.37.
Eridanus: River and Constellation, London 1883, pp.37-8.
J.Déchelette, Manuel d'Archéologie préhistorique, celtique et gallo-romaine, I, Paris 1908, p.624; L.Radermacher, in "Wiener Studien" 36, 1915, pp.320-8; H.Hennig, in "Petermanns Geogr.Mitteilungen", Gotha 1943, p.275; V.Burr, in "Würzburger Jahrbücher" 3, 1948, pp.181-9; G.Capovilla, Le ÔHLIADES di Eschilo.  Problemi sull'Eridanos, sugli Hyperboreoi, su Kyknos e Phaeton, in "Rendiconti Istituto Lombardo" 89, 1955, p.419; 469 (che parla di un'isola Elektrìs nel Baltico).
Eridanos, in Mélanges de linguistique et de philologie offerts à J. van Ginneken, Paris 1937, pp.207 ss.
Eridanos und Rhodanos, in Mélanges E.Boisacq, II, Bruxelles 1938, pp.193 ss.
Teopompo e Pseudo-Scilace, in "Studi Classici e Orientali" 12, 1963, pp.58-65, sulla scia di H.Phillip, in Pauly-Wissowa, XVIII, s.v. Padus, cc.2178-81; cf. anche Bianchetti, Plwta; kai; poreutav, pp.80, 89. A mio avviso, l'autore (e altrettanto vale per l'articolo di A.Grilli, Eridano, Elettridi e via dell'ambra, in Studi e ricerche sulla problematica dell'ambra, I, Roma 1975, p.287) non interpreta nel modo migliore il passo di Strabone ove è detto che l'Eridano è vicino al Po, cf. la spiegazione del passo supra, p.20.
Natura degli animali XIV.8; Venanzio Fortunato, autore veneto del VI secolo d.C., chiama Reteno questo fiume (Vita S.Martini IV.677, ed.Leo); sulla persistenza del toponimo, come Rudena, Ruthena, cf. Peretti, p.60.
Con la medesima alternanza fra sorda e sonora che ritroviamo in Atria/Adria.
Peretti, p.60 e n.110.
La lingua venetica, I, Padova-Firenze 1967, pp.301-3.
L'Eridano e le isole Elettridi, in "Padusa" 9, 1973, pp.63 ss., ripubblicato con qualche miglioramento nell'articolo già citato, pp.279 ss.
Eschilo, in Plinio XXXVII.32: Eridano in Iberia (regione caucasica?).
Su questo punto però non si può concordare.  Infatti in Igino, Favole 154 = Ferecide, 3, F 74 Jacoby è detto: “Fetonte...cadde nel fiume Po. Questo corso d'acqua è detto dai Greci Eridano, e Ferecide per primo lo chiamò”.  Difficilmente si può intendere che Ferecide fu il primo a nominare l'Eridano, poichè ne aveva parlato Esiodo, come ricorda la medesima Favola di Igino, e dunque si deve intendere che Ferecide chiamò Eridano il Po.  Cf. Braccesi, Grecità adriatica, p.46, n.95.  Inoltre, dai fr.16 a e 16 c di Ferecide non si deduce una localizzazione precisa, nè in contrasto con quella tradizionale nell'alto Adriatico.
Quella che, secondo il Grilli, potrebbe essere lo specchio d'acqua nominato dallo Pseudo-Aristotele.
Le vie dell'ambra. I passi alpini orientali e l'alto Adriatico, in "AAAd" 9, 1976, p.42.
O.c., pp.37-55.
P.35, n.72.
Braccesi, p.37 e 50-53.
Braccesi, p.40, n.77.
Cf. N.W.Dämmer, San Pietro Montagnon (Montegrotto). Un santuario protostorico lacustre nel Veneto, Mainz am Rhein 1986, pp.55 e 57.  Claudiano (Carmi minori 26.28-29) lo definisce "un lago grandissimo".
Dämmer, p.157, nr.39-40.  Qualche frammento d'ambra è stato rinvenuto anche a Gurina, nella valle della Gail (Austria), in una zona ove c'era anche un santuario paleoveneto, cf. A.B.Meyer, Gurina im Obergailthal (Kärnten), Dresden 1885, pp.78-85, nonchè ad Este, nella stipe Baratella: H.-W.Dämmer, in "Quaderni di Archeologia del Veneto" 6, 1990, p.209.
Cf. Erodoto IV.31 ss..
Bibliografia in J.Tréheux, La réalité historique des offrandes hyperboréennes, in Studies presented to D.M.Robinson, II, Saint Louis 1953, pp.758-9.
Inno a Delo 275-90.  Per Damaste del Sigeo (autore del V secolo a.C.; 5, F 1 Jacoby), gli Iperborei abitavano presso il mare settentrionale.
I.31.2.
Cf. Tréheux, pp.772-4.  Trovo che questa teoria abbia solo un punto non chiaro: perchè Erodoto - che scrive al tempo dell'impero ateniese nell'Egeo - attesta il percorso tipico dei periodi di indipendenza delia?
F.Courby, Délos, V, Paris 1912, pp.63-74.
Ch.Picard, in "CRAI" 1923, pp.238 ss.; Id. e J.Replat, in "BCH" 48, 1924, pp.247 ss.; R.Vallois, ibidem, pp.411 ss.
F.Durrbach, in "BCH" 35, 1911, pp.5 ss.; J.Coupry, in "BCH" 62, 1938, pp.85 ss.; IG II2, 1636, A, l.8; cf. Tréheux, La réalité, pp.760-3.
Eccezion fatta per un oggetto (sigillo) d'ambra con un falco d'oro mobile: IG XI.2, 161, B, l.49; e per un altro oggetto in ambra ornato d'oro: IG XI.2, 287, B, ll.26-7. W.Déonna, Délos,XVIII, Paris 1938, p.309, nr.161.  I testi di Delo usano il termine lingurion, che per Teofrasto, Sulle pietre 28 e Strabone II.200 e 202, designa una varietà di ambra, ma che per Plinio, Storia naturale XXXVII.52-53, designa una pietra dura simile all'ambra.
Tréheux, o.c., p.765.  Si tenga presente però che le offerte erano avvolte nella paglia di grano (Erodoto), o consistevano nelle prime spighe mietute (Callimaco e Solino I.16.5), e, secondo Eustazio (1483; Commento a Iliade IV.73) l'ambra aveva il potere di attrarre la paglia.  Interessanti le spighe in ambra, databili al II secolo d.C., rinvenute a Valkenburg, in Olanda meridionale: A.N.Zadocks-Jitta, in "Bullettin Antieke Beschaving" 37, 1962, p.65, fig.6.
Perciò non è prudente andare alla ricerca di toponimi moderni europei che evochino il nome di Apollo, al fine di ricostruire la via iperborea (cf., per es., R.Harris, in "JHS" 45, 1925, pp.229 ss.; G.B.Biancucci, in "RFIC" 107, 1973, pp.207 ss.).
Apollodoro II.5.11; Esiodo, fr.366 Merkelbach-West; Igino, Prefazione alle Favole, p.26 B.; Tzetze, Scolio alla Teogonia 117 (che chiama Aithousa un'altra Esperide, mentre una Eliade si chiamava Aitherie).
Cf. , su questo particolare, anche lo Scolio a Euripide, Ippolito 742.
In Stazio, Tebaide II.280-1, si accenna al "frutto delle Esperidi ricco di pianto", laddove il poeta evidentemente intendeva parlare delle Eliadi, famose per il loro pianto.  Secondo J.B.Poynton, in "Classical Review" N.S. 13.3, 1963, p.259, si dovrebbe addirittura correggere il testo di Stazio, ma penso che la confusione fra i due gruppi di ninfe potesse risalire al poeta stesso, e non a qualche copista del suo testo.
Dea della giustizia.
Dio marino proteiforme, che dava le sue risposte solo se costretto con la forza da chi non temeva le sue metamorfosi.
Ferecide, 3, F 16 a, c Jacoby.  Da una parte, sappiamo che Ferecide identificava l'Eridano con il Po, dall'altra, che egli localizzava presso l'Eridano le Esperidi; da questi due dati non siamo però in grado di affermare che per l'autore ateniese le Esperidi si trovavano presso il Po, perchè un autore come Eschilo, quasi contemporaneo di Ferecide, identificava l'Eridano col Rodano, ma ambientava presso Adria un tema tipico dell'Eridano come il lutto per Fetonte.  Non è esclusa dunque anche per Ferecide una duplice dimensione geografica dell'Eridano, sia centroeuropea che padana.  F.Le Roux, in "Ogam" 7, 1955, pp.301-314, non utilizza Ferecide nel suo complicato (e vano) tentativo di dimostrare che le mele delle Esperidi erano di ambra.
G.Camporeale, in Archaeologica. Scritti in on.di A.Neppi Modona, Firenze 1975, pp.158-163, fig.8; M.Cristofani-M.Martelli, La ceramica degli Etruschi, Novara 1987, nr.85.
Apollodoro II.5.11; cf. una lekythos attica a figure nere raffigurante un Eracle con cappello di foggia orientale, forse scitico: F.Brommer, in "Jahrbuch des deutschen archäologischen Instituts" 57, 1942, p.108, fig.5.
Cf. J.Bayet, Herclé, Paris 1926, pp.128-138.
E.Gerhard, Etruskische Spiegel, Berlin 1943, nr. 140.
Cf. W.Burkert, Structure and History in Greek Mythology and Ritual, Berkeley-Los Angeles-London 1979, p.94 e n.1.
Cf. Bayet, o.c., p.128.
Cf. cap.17.
E.Richardson, Etruscan votive Bronzes, Mainz 1983, pp.361-362; M.Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara 1985, p.282; M.Tombolani, in Gli Etruschi a nord del Po, II, Mantova 1987, p.102
Un'ipotesi diversa (produzione eginetica) è stata formulata da P.Zanovello, L'Herakles di Contarina, in "AqN" 58, 1987, cc.153 ss.
Ch.Picard, La sculpture antique, II, Paris 1926, p.320, la definisce "tracia"; "scitica" la Zanovello, c.177.
Richardson, o.c., fig.806; cf. J.Bayet, Herclé, Paris 1926, tav.I.
Forse lo stesso può dirsi di un analogo bronzetto del Louvre, mentre un terzo simile, al Museo di Ginevra, è rivestito di pelle leonina.  Su tutta la questione cf. Zanovello, cc.159-162.
La piccola proporzione dell'animale non deve stupire, perchè si tratta di un accorgimento stilistico per alludere ad una determinata fatica senza raffigurarne compiutamente la scena.  Cf. l'immagine di una piccola cavalla di Diomede catturata da Eracle, su una gemma etrusca: A Furtwängler, Die antiken Gemmen, Berlin-Leipzig 1900, tav.XVIII.56  = P.Zazoff, Etruskische Skarabäen, Mainz 1968, nr.93, e quella di un piccolo leone di Nemea sulla cornalina Antike Gemmen, tav.XVII.56-7; cf. la gemma etrusca Zazoff, nr.97, con Eracle che parla con un piccolo demone acquatico.
Così Richardson e Tombolani; per la Zanovello, cc.156-158, si tratta di una pelle di leone.  In effetti si riconoscono zoccoli di cervide alla fine della pelle che copre le gambe dell'eroe.
Sul quale: M.F.Vos, Schythians Archers in archaic Attic Vase Painting, Groningen 1963.  Cf. P.J.Riis, Tyrrhenica, Copenhagen 1941, p;180.
Fiume di norma identificato con il Danubio, ed eventualmente con le "diramazioni" di questo corso d'acqua, che si credeva giungessero fino all'alto Adriatico.  Alle sorgenti dell'Istro si sarebbero trovate le terre degli Iperborei: Pindaro, Olimpica IV.24-25; Scolio ad Apollonio Rodio IV.284 = Eschilo, fr. 197 Radt; Scolio a Pindaro, Olimpica III.25 e VIII.62-63.
Cf. Bayet, o.c., pp.115-119.
Silio Italico III.415-441 (da Ercole e Pirene sarebbe nato un serpente, donde la condanna e la morte di Pirene); sulle imprese di Eracle presso i Pirenei, monti "dell'Iberia": Diodoro V.35.2.
Dionisio di Alicarnasso I.43.1; Solino I.15.
Cf. supra, nota 1
Eschilo, Prometeo liberato, fr.190-199 Radt; cf. Prometeo incatenato, vv.1-2.
Strabone IV.1.7.  Dionisio di Alicarnasso I.41.3 ed altri autori parlano invece della spedizione contro Gerione.  Su questi argomenti cf. il mio testo negli Atti del Convegno Eracle in Occidente, Trento 1990.
Sul tipo di sapere costituito dai miti greci e sul tipo di credibilità di cui godeva e di cui gode cf. P.Veyne, Les Grecs ont-ils cru à leurs mythes?, Paris 1983, part. pp.28 ss.
Il Braccesi, o.c., p.35, n.71, segnala la coincidenza fra le due tradizioni.
"Elector".
XXXVII.35-36.  Sulle fonti di questo brano pliniano: A.Grilli, La documentazione sulla provenienza dell'ambra in Plinio, in "Acme" 36, 1983, pp.5 ss.; cf. J.Kolendo, A la recherche de l'ambre baltique. L'expédition d'un chevalier romain sous Néron, Warszawa 1981.
Cf. Diodoro V.23, che dipende da Timeo.  Plinio afferma però, in un altro passo (IV.94), che Timeo chiama l'isola Baunonia.
Scolio Bernese a Georg.I.482;
696, F 34 f Jacoby, che attribuisce il frammento a un Cherilo della seconda metà del V secolo, ma vi fu un altro Cherilo, vissuto in epoca più recente, poeta di scarso talento.
Ca.880 Km., distanza che separa Carnuntum dalle foci della Vistola; cf. N.Negroni Catacchio, Le vie dell'ambra. I passi alpini orientali e l'alto Adriatico, in "AAAd" 9, 1976, p.30 (ove si cita un lavoro del Bilinski su questo argomento in lingua polacca).
Poco meno di 6 Kg.
Sulla genesi del mito, che doveva essere composto, fin dall'inizio, di più varianti, cf. S.Fuscagni, Il pianto ambrato delle Eliadi, l'Eridano e la nuova stazione preistorica di Frattesina Polesine, in "QUCC" 41, 1982, pp.101 ss.
Cf.D.E.Strong, Catalogue of the carved Amber in the Department of Greek and Roman Antiquities. British Museum, London 1966, pp.1-4; 6-7; J.de La Genière, A propos du Catalogue des ambres sculptées du British Museum, in "Revue Archéologique" 1967, p.297; C.W.Beck - G.C.Southard, The Provenience of Mycenaean Amber, in Atti del I Congr.internaz.di Micenologia, I, Roma 1968, pp.58 ss.; C.W.Beck - G.C.Southard - A.B.Adams, Analysis and Provenience of Minoan and Mycenaean Amber, II, Tiryns, in "GRBS" 9, 1968, pp.17-18; degli stessi autori, Analysis and Provenience of Minoan and Mycenaean Amber, III: Kakovatos, in "GRBS" 11, 1970, pp.5 ss.; C.W.Beck, Amber in Archaeology, in "Archaeology" 23.1, 1970, pp.7 ss. (sulle rare eccezioni: p.11); G.Guerreschi, La problematica dell'ambra nella protostoria italiana: metodo sperimentale per la determinazione della provenienza, in "SE" 38, 1970, pp.169 ss.; AA.VV., Studi e ricerche sulla problematica dell'ambra, I, Roma 1975; N.Negroni Catacchio, Le ambre figurate protostoriche nel quadro di uno studio generale dell'ambra nell'antichità, in Un decennio di ricerche archeologiche, II (C.N.R., Quaderni de "La Ricerca Scientifica"), Roma 1978, p.165 e n.12, ove ulteriori dati; A.Harding - H.Hughes-Brock, Amber in the Mycenaean World, in "ABSA" 69, 1974, p.156.  L'origine nordica dell'ambra è comprovata da rinvenimenti di depositi, di carattere "commerciale", di quintali di ambra, prevalentemente grezza, tra il Baltico e il medio corso del Danubio, databili tra il I secolo a.C. e il V d.C.; cf. K.Majewski, Importy rzymske w Polsce, Warsaw 1960, p.139; B.Bilinski, Le vie dell'ambra, la Vistola e le carte geografiche di Tolomeo, in Atti VI Congr.Int.Scienze Preistoriche e Protostoriche, sez.V-VIII, 1966, p.130; M.Montagna Pasquinucci, Le ambre "romane" di età imperiale: problematica e area di diffusione, in Studi e ricerche sulla problematica dell'ambra, I, Roma 1975, pp.264-5; N.Negroni Catacchio, Le vie dell'ambra. I passi alpini orientali e l'alto Adriatico, in "AAAd" 9, 1976, pp.26-27.
Circolo funerario A: cf.Harding - Hughes-Brock, pp.162-3.
Ritrovamenti di Kakovatos (Peloponneso): K.Müller, in "MDAI(A)" 34, 1909, p.280, fig.3-4; Peristeria (Peloponneso): G.Daux, in "BCH" 87, 1963, p.787; Isopata (Creta): A.Evans, in "Archaeologia" 65, 1914, p.42, fig.56.
Cf., tra la vasta bibliografia: V.Milojç±içv, in "Germania" 33, 1955, pp.316 ss.(che pensa a prodotti dell'area greca); R.Hachmann, in "Bayerische Vorgeschichtsblätter" 22, 1957, pp.1 ss.; N.K.Sandars, Bronze Age Cultures in France, Cambridge 1957, pp.72-77; Id., in "Antiquity" 33, 1959, pp.292-5; E.Bielefeld, in Archaeologia Homerica, I.c, Göttingen 1968, pp.18-19 (a p.19, n.105 dati relativi ai materiali riferibili al commercio miceneo provenienti dall'Inghilterra e dall'Europa centro-settentrionale); Harding - Hughes-Brock, pp.156-8 e 170-2. 
Cf., per es., G.von Merhart, in "Germania" 24, 1940, pp.99-101; Strong, p.17.
G.Karo, in "Archäologischer Anzeiger" 1916, pp.143 ss.; Id., in "MDAI(A)"55, 1930, pp.119 ss.
J.Boardman, The Cretan Collection in Oxford, Oxford 1961, p.72, fig.32.
A.Evans, in "JHS" 45, 1925, p.2, fig.1.
Strong, pp.39-40, tav.I b-c (in contesto Miceneo III C).
N.Kyparissi, in "Arheologikòn Deltìon" 5, 1919, p.116; S.N.Marinatos, in "Arheologikì Ephimerìs" 1932, p.42; Marinatos, in "Arheologikì Ephi-merìs" 1933, pp.92-4, fig.2,43; cf.V.R.d'A.Desborough, The Greek Dark Ages, London 1972, p.90.
S.Wide, in "MDAI(A)" 35, 1910, p.31.
C.F.A.Schaeffer, Ugaritica, I, Paris 1939, p.100.
F.Lo Schiavo, in Ichnussa. La Sardegna dalle origini all'età classica, Milano 1981, p.306, fig.360.
S.Batoviçv, in "Diadora" 1, 1959, p.45, fig.4; Id., in Jadranska obala u protohistorji, Simposio Dubrovnik 1972, Zagreb 1976, p.22, fig.2.2; p.27, fig.4.9; altre ambre del genere si trovano al Museo di Zara: N.Negroni Catacchio, La problematica dell'ambra nella protostoria italiana: ancora sulle ambre di Frattesina di Fratta Polesine, in "Padusa" 9, 1973, p.78 = "Padusa" 20, 1984, p.149, n.42.
L.Bernabò Brea - M.Cavalier, Meligunìs-Lipàra, I, Palermo 1960, p.119, tav.XLIII.1.
F.Rittatore, in "Rivista di Scienze Preistoriche" 6, 1951, pp.96 ss.; 167 ss., fig.11.
R.Peroni, in "NS" 1960, pp.341 ss., fig.11.17-18; cf.A.M.Bietti Sestieri, Elementi per lo studio dell'abitato protostorico di Frattesina di Fratta Polesine, in "Padusa" 11, 1975, p.13, n.26 ="Padusa" 20, 1984, p.221, n.26.
A.Mansuelli - R.Scarani, L'Emilia prima dei Romani, Milano 1961, p.175.
La formazione della città in Emilia-Romagna (a cura di G.Bermond Montanari), II, Bologna 1987, p.21, fig.12.
N.Negroni Catacchio, La problematica dell'ambra nella protostoria italiana: le ambre intagliate di Fratta Polesine e le rotte mercantili dell'Alto Adriatico, in "Padusa" 8, 1972, pp.3-20 = "Padusa" 20, 1984, pp.73-90 e, della stessa autrice, l'articolo del 1973, cit. in nota 12, nel quale si è raccolta la principale documentazione relativa a questo tipo di ambre; precedentemente si aveva lo studio di F.Rittatore Vonwiller, Manufatti d'ambra della tarda età del bronzo in Italia e nell'area micenea, in "PP" 24, 1969, pp.383-7. Per le ambre dalla necropoli di Frattesina: Bietti Sestieri, Elementi, p.13 = p.221, n.26.
A.Mosso, in "MAL" 19, 1909, p.99, tav.13.
Negroni Catacchio, La problematica, 1972, p.19 = pp.152-3.
Negroni Catacchio, La problematica, 1973, p.82 = p.153.
Ormai sono molti gli studiosi che, sulla scia del Braccesi, credono in un'origine micenea delle leggende relative all'ambra, e, in particolare, alle leggende che collegavano l'ambra con il Delta padano, ove si trova Frattesina.  Cf. Braccesi, Grecità adriatica, pp.37-55; Negroni Catacchio, o.c.; M.L.Nava, Appunto per un controllo con dati archeologici della tradizione mitografica altoadriatica, in "Padusa" 8, 1972, pp.21 ss.; S.Fuscagni, Il pianto ambrato delle Eliadi, l'Eridano e la nuova stazione preistorica di Frattesina Polesine, in "QUCC" 41, 1982, pp.101 ss.
Negroni Catacchio, La problematica, 1973.
Bietti Sestieri, L'abitato di Frattesina, in Este e la civiltà paleoveneta a cento anni dalle prime scoperte. Atti XI Convegno di Studi Etruschi e italici,  1980, pp.31-32 = "Padusa" 20, 1984, pp.421-2; A.Biavati, in "Padusa" 20, 1984, pp.509 ss. e 531 ss.
Bietti Sestieri, Elementi per lo studio..., in "Padusa" 1975, p.12 = "Padusa" 1984, p.220; cf. Ead., in "Archeo" marzo 1990, p.49.
Cf. i contributi di Bietti Sestieri, di M.De Min,  di M.Nava, di F.Rittatore Vonwiller, raccolti in "Padusa" 1984.
Cf. L.Vagnetti, Il Bronzo finale in Puglia nei suoi rapporti con il Mediterraneo orientale, in Atti XXI Riunione Scientifica Ist.Ital.Preistoria e Protostoria, Firenze 1977, Firenze 1979, p.546.  S.Marinatos, Lausitzer Goldschmuck in Tyrins, in  QEWRIA, Festschrift W.-H.Schuchhardt, Baden-Baden 1960, pp.151 ss., ha, per altro verso, notato che la montatura in oro delle ambre del tesoro di Tirinto è di tipo centro-europeo: un confronto calzante viene dalla Cecoslovacchia).  La Negroni Catacchio, La problematica, 1973, p.76, notava anche la compresenza di pugnali prodotti nell'Italia del Nord e di grani ad astragalo presso l'antro Dicteo.
Negroni Catacchio, La problematica, 1972, pp.6-8 = 79-80.  Nelle fasi dell'età del Bronzo precedenti il Bronzo Finale risulta però che l'ambra giungesse nell'Italia nord-orientale attraverso i passi alpini del Resia e del Brennero, soprattutto attraverso la val d'Adige, mentre solo dal XII secolo si può considerare il Polesine come un polo verso cui convergeva l'ambra nordica.  Cf. N.Negroni Catacchio, La problematica dell'ambra nella protostoria italiana. Le ambre intagliate delle culture protostoriche dell'area lombardo-veneta-tridentina, in "Memorie del Museo Civico di Storia Naturale di Verona" 18, 1970, pp.319 ss.
E.Bianchin Citton, in Il Veneto nell'antichità, II, Verona 1984, p.621 (già la Bietti Sestieri, in Magna Grecia e mondo miceneo. Nuovi documenti = Atti XXII Convegno Magna Grecia, Taranto 1982, p.203, non escludeva un artigianato dell'ambra a Frattesina).  Da Frattesina vengono due frammenti di ceramica micenea (Mic.III C), un altro viene dagli scavi di Montagnana: cf. Bietti Sestieri, o.c., pp.201-7; un altro da Fondo Paviani: L.Vagnetti, ibidem, p.208.  Si tratta, per lo più, di prodotti che imitano la ceramica micenea, realizzati in Italia meridionale; cf. Vagnetti, Il Bronzo finale, cit., p.545.
Vagnetti, Il Bronzo finale, p.546, n.41, è giunta alla conclusione che i grani ad astragalo non fossero stati prodotti in Grecia, visto che essi sono stati trovati spesso in associazione a materiali protovillanoviani o di tipo centro-europeo (ad es. i fili d'oro del tesoro di Tirinto).
La cultura protovillanoviana si diffuse in molti siti della Penisola tra il 1200 e il 900 a.C. ca.
Cf. Bietti Sestieri, L'abitato, cit.  Sulla presenza nei vetri di Frattesina di una sostanza, la skutterudite, proveniente dal Marocco: A.Biavati, L'arte vetraria nella civiltà protovillanoviana di Frattesina di Fratta Polesine (Rovigo): analisi chimica dei reperti archeologici, in "Padusa" 19, 1983, pp.59 ss.  I pettini d'avorio di Frattesina sono in tutto simili ad un pettine trovato nella necropoli di Enkomi, a Cipro, cf. L.Vagnetti, Cypriot Elements beyond the Aegean in the Bronze Age, in Acts of the Intern.Arch.Symposium "Cyprus between the Orient and the Occident", Nicosia 1985, Nicosia 1986, pp.210-3.
Cf.M.Mellink, in "AJA" 89, 1985, pp.558-9; Ead., in "Anatolian Studies" 36, 1986, pp.214-6; G.F.Bass, A Bronze Age Shipwreck at Ulu Burun (Kaß/): 1984 Campaign, in "AJA" 90, 1986, pp.269 ss., sui quattro dischetti a profilo carenato in ambra: p.286; G.F.Bass-C.Pulak-D.Collon-J.Weinstein, The Bronze Age Shipwreck at Ulu Burun: 1986 Campaign, in "AJA" 93, 1989, pp.1 ss..
Fr.2 Kinkel; Epimenide, fr.13 Diels-Kranz; cf. Ampelio 9.3 (Fetonte fratello di Circe e Medea).
4, F 137 Jacoby.
Esichio, s.v. Meropes (secondo cui Merope fu padre di Fetonte di Cos).  A Eretria, in Eubea, si riteneva che Eretrio, il quale diede il nome alla città, fosse figlio di Fetonte: Stefano di Bisanzio, s.v.Eretrìa; Scolio a Iliade II.537.
Su Elpie cf. Braccesi, Grecità adriatica, pp.55-63; confronto con i dati archeologici, da cui non risulta alcun elemento greco, in Th.van Compernolle, in "MEFRA" 97, 1985, pp.35 ss.
Erodoto I.163.1; dati archeologici in A.Mastrocinque, Santuari e divinità dei Paleoveneti, Padova 1987, p.54, n.38; p.87, n.17.
Strong, p.22.
Sulle colonie corinzie cf. Braccesi, Grecità adriatica, pp.91-127.
I grani d'ambra da una tomba di Teno, nell'Egeo, sono un'eccezione: D.Levi, in "ASAA" 8-9, 1925-26, p.215; cf.H.Payne - T.J.Dunbabin, Perachora, II, Oxford 1962, p.520.  Lo Strong, p.22, ricorda anche una collana in ambra da una tomba di Vergina (Macedonia) databile al 1000 a.C. ca.
Dati in Perachora, l.c.; e Strong, p.22.
J.Boardman, in "ABSA" 49, 1954, tav.28.5; M.S.F.Hood - J.Boardman, in "ABSA" 56, 1961, p.75; J.K.Brock, Fortetsa. Early Greek Tombs near Knossos, Cambridge 1957, p.209 e p.54, nr.564.
Figurina di uccello dalla tomba 56 del Ceramico: K.Kübler, Kerameikos, V.1, Berlin 1954, p.197.
A.N.Skias, in "Arheologikì Ephimerìs" 3, 1898, pp.103 e 107.
M.Robertson, in "ABSA" 43, 1948, p.117 e tav.48; S.Benton, in "ABSA" 48, 1953, pp.338 e 347.
Perachora, II, pp.520-5.
W.Lamb, in "ABSA" 35, 1934-35, pp.154-155 (queste ambre sono simili a quelle dell'Artemision di Efeso).
J.Boardman, Excavations in Chios 1952-1955. Greek Emporio, London 1967, pp.238-240.
Chr.Blinkenberg, Lindos, I, Berlin 1931, cc.110-3.
R.M.Dawkins, The Sanctuary of Artemis Orthia, London 1929, p.386, secondo il quale esse si datarebbero tra l'VIII e gli inizi del VII secolo; per il Payne e il Dunbabin, Perachora, p.521, si daterebbero al VII secolo.
H.Gallet de Santerre, J.Tréheux, in "BCH" 71-72, 1947-48, p.220, nr.69.
W.Déonna, Délos, XVIII, Paris 1938, p.309, nr.161.
D.G.Hogart, Excavations at Ephesos. The archaic Artemisia, London 1908, pp.213-216, tav.XLVII-XLVIII (cf. Strong, nr.4-7); A.Bammer, in "Jahreshefte des Oesterreichischen archäologischen Institutes" 58, 1989, pp.19-20, fig.31 e c.23 e fig.25; 27.
L.Pernier, in "Africa Italiana" 4, 1931, p.203 e fig.26.
P.Orsi, in "MAL" 25, 1918, pp.587-599.
Bammer, o.c., c.23.  In questo caso, le ambre si daterebbero, in gran parte, all'800 a.C. circa.
Raramente è attestata l'ambra in aree di culto (che in Italia prima del VI secolo sono assai povere); cf.A.L.C., in "SE" 49, 1981, pp.346 ss.
Cf. F.Freiherr von Bissing, in "SE" 5, 1931, pp.49 ss.; Id., in "SE" 8, 1934, p.352.
Cf. G.Bartoloni, in Civiltà del Lazio primitivo, Roma 1976, pp.342-3; N.Negroni Catacchio, Le ambre figurate protostoriche nel quadro di uno studio generale dell'ambra nell'antichità, in Un decennio di ricerche archeologiche, II (C.N.R., Quaderni de "La Ricerca Scientifica"), Roma 1978 (d'ora in poi citeremo questo lavoro come Negroni Catacchio 1978), p.173; Ead., L'ambra: produzione e commerci nell'Italia preromana, in Italia, omnium terrarum parens, Milano 1989 (d'ora in poi citata come Negroni Catacchio 1989), pp.661-2; su Verucchio: La formazione della città in Emilia-Romagna, (a cura di G.Bermond Montanari), II, Bologna 1987, pp.207-83, part.pp.212, 217, 236 ss.  Altri dati, per es., in L.Bonomi Ponzi, La necropoli di Colfiorito di Foligno tra il VI e il IV secolo a.C., in La Romagna tra VI e IV sec.a.C. nel quadro della protostoria dell'Italia centrale, Atti Conv.1982, Bologna 1985, p.242.  Si tenga presente che tutte le rassegne di materiali qui presentate vanno considerate non dimenticando che la documentazione pervenutaci dipende anche dal tipo di rituali funerari praticati: le inumazioni permettevano di conservare molti elementi del corredo, mentre la cremazione ne prevedeva la combustione di una parte, o anche della totalità.
Bartoloni e Negroni Catacchio, opere citate.  Interessante la classe di elementi di collana o castoni triangolari o trapezoidali trovati a Narce, Praeneste e Cerveteri: M.A.Rizzo, in M.Cristofani - M.Martelli, L'oro degli Etruschi, Novara 1983, nr.85 e 89; Strong, tav.IV.16; essi trovano confronti in elementi simili rinvenuti nel Piceno: cf. E.Brizio, La necropoli di Novilara, in "MAL" 5, 1935, cc.134-136; 272-273.
A.Bedini, in Studi e ricerche sulla problematica dell'ambra, I, Roma 1975, pp.253 ss.
G.Pisani Sartorio, in "PP" 32, 1977, pp.56-57.
G.Fogolari, in Studi e ricerche sulla problematica dell'ambra, I, p.248.  Anche presso le maggiori necropoli dei Veneti si ritrovano singole sepolture (di solito femminili) che emergono nettamente sulle altre per ricchezza d'ambra; ad esempio, la tomba padovana 5 via Tiepolo (cf.A.M.Chieco Bianchi, in Padova preromana, Padova 1976, pp.283-7; Ead., in Padova antica, p.62).  Lo stesso fenomeno si nota, per es., a Satricum, con la tomba VI, o a Chiaromonte, con la tomba 96.  Si doveva trattare di persone la cui famiglia poteva facilmente procurarsi prodotti in ambra.
P.Marconi, La cultura orientalizzante nel Piceno, in "MAL" 35, 1933, cc.413-430; Negroni Catacchio 1978, pp.174-5; su Novilara: Brizio, o.c., cc.134-9; 260-2; 271-2.  Interessante la tomba 78 di Loreto Aprutino, località Farina-Cardito (Pescara), databile al VI secolo, contenente un corredo femminile con dischetti ed elementi a bulla in ambra, nonchè un eccezionale diadema di tredici castoni rettangolari in ferro contenenti lastrine d'ambra: V.Cianfarani - L.Franchi Dell'Orto - A.La Regina, Culture adriatiche antiche di Abruzzo e di Molise, Roma 1987, pp.187, 294-5, 305.
Strong, nr.14; W.Johannowsky, in Contribution à l'étude de la societé et de la colonisation eubéennes, Napoli 1975, pp.103-4 (scaraboidi per anelli).
J.de La Genière, Recherches sur l'âge du fer en Italie méridionale, Sala Consilina, Napoli 1968, pp.124, 203-4.
P.Zancani Montuoro, in "Atti e Memorie della Società Magna Grecia" 15-17, 1974-76, pp.25-26 e fig.7.  Elementi a forma di schematico uccello da Sibari: Negroni Catacchio 1978, p.180.
A.Bottini - M.Tagliente, in "BdA" 24, 1984, pp.111 ss.; A.Bottini e M.Tagliente, in Siris-Polieion, Atti del Convegno Policoro 1984, Galatina 1986, pp.157 ss., 167 ss.
A.Bottini, in "Archeo" 21, 1986, pp.26 ss.; Id., in "BdA" 41, 1987, p.11; S.Bianco, in Archeologia, arte e storia alle sorgenti del Lao (a cura di P.Bottini), Matera 1988, pp.79 ss.
Cf. anche la scultura conservata al British Museum, Strong, nr.43.
La formazione della città in Emilia-Romagna, p.228, fig.155.
Vetulonia: I.Falchi, Vetulonia e la sua necropoli antichissima, Firenze 1891, p.102 e tav.VII.4; D.Massaro, Le ambre di Vetulonia, in "SE" 17, 1943, tav.IV, 26; Bologna: C.Morigi Govi, in "Archeologia Classica" 23, 1971, p.229; Padova: AA.VV., Padova antica, Trieste 1981, fig.39.; cf.Negroni Catacchio 1978, p.184.
Satricum: Bartoloni, p.344, tav.XCIV; Narce (due esemplari): A.Della Seta, Museo di Villa Giulia, Roma 1918, p.102; Bologna (due esemplari): Negroni Catacchio 1978, p.185 e fig.23; Vulci: antiquariato (Borowsky) (fig.22).  Al Museo dell'Ermitage di Leningrado si conserva un cagnolino in ambra, proveniente da Kertsch, sul mar Nero (J.de La Genière, A propos du Catalogue des ambres sculptées du British Museum, in "Rev.Arch." 1967, p.302), circa il quale non si conoscono però elementi di cronologia.
A.Batchwarowa, in "NS" 1965, p.130, fig.52 e p.132.
Al Museo di Zagabria: R.BiΩ±içv-Drechsler, in "Vjesnik Arheoloß±kog Muzeja u Zagrebu" III ser., 1, 1958, pp.38-39, tav.VI.38.  Da segnalare anche la ricchezza di ambre nella necropoli di Prozor: Ead., ibid., 6-7, 1972-73, pp.1 ss.
La formazione della città in Emilia-Romagna, p.225, fig.154.24.
M.Landolfi, in AA.VV., Italia omnium terrarum alumna, Milano 1988, p.368.
S.Batoviçv, in Jadranska obala u protohistorji, Simposio Dubrovnik 1972, Zagreb 1976, p.43, fig.12; p.66, fig.14; p.77, fig.23; p.87, fig.32.
Cf. Bottini, opere citate.
Batoviçv, o.c., pp.47 e 63.
Cf. il piccolissimo leone (alto cm.1,4)(fig.14) da una tomba di Pratica di Mare (Lavinio), trovato insieme ad uno scarabeo egiziano: M.P.Muzzioli, in Civiltà del Lazio primitivo, Roma 1976, p.304, tav.LXXVIII.  L'ambra era molto adatta alla realizzazione di amuleti, infatti la sua capacità di attrarre piccoli oggetti, grazie all'elettricità statica, la fece ritenere animata (cf. Diogene Laerzio I.42).  Ancora in età romana si credeva, nell'Italia del Nord, che l'ambra proteggesse dalle malattie della gola: Plinio, Storia naturale XXXVII.44.
F.W.Freiherr von Bissing, Studien zur ältesten Kultur Italiens: II. Etruskische Skarabäen und Skarabäoide aus Bernstein, in "SE" 5, 1931, pp.49 ss.; Negroni Catacchio 1978, pp.177 e 184; Ead., 1989, p.661; per Perachora, cf. § 12.  Dall'Egitto vengono alcuni scarabei in ambra (che era detta ß±kl, cf.Plinio, Storia naturale XXXVII.36: sacal) databili durante la XVIIIl e la XXI dinastia (XVI e fine XI secolo, epoche nelle quali l'ambra era diffusa in area greca): cf. E.Daumas, Quelques notes sur l'ambre jaune dans l'ancien Égypte, in "Chronique d'Égypte" 46, 1971, pp.50 ss.
Il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a cura di G.Proietti, Roma 1980, p.329, nr.6.  
Negroni Catacchio 1978, pp.176-7; Ead. 1989, p.661.
Boardman, Greek Emporio, p.238.
Dawkins, p.240, tav.CLXIX.3.
F.Canciani, in Civiltà del Lazio primitivo, Roma 1976, p.243, nr.97, cf. p.225.
Tomba Barberini di Praeneste (prima metà del VII secolo): C.Densmore Curtis, The Barberini Tomb, in "Memoirs of the American Academy in Rome" 5, 1925, pp.27 e 32, tav.9 e 14; cf. M.L.Uberti, in I Fenici, Milano 1988, p.405.
E.Minns, Scythians and Greeks, Cambridge 1913, p.193, fig.85; cf. J.Boardman, I Greci sui mari. Traffici e colonie, tr.it., Firenze 1986, p.285.  Si tratta di opere greche orientalizzanti o realizzate proprio da artisti orientali che operavano nella Russia meridionale.
A.T.Olmstead, in "Bulletin of the Museum of Fine Arts" 36, 1938, pp.77 ss.; (al Museum of Fine Arts di Boston). L'ambra baltica un testo assiro del X sec.: J.Oppert, L'ambre chez les Assyriens, in "Recueil de travaux relatifs à la philologie et à l'archeol.égypt.et assyrienne" 21, 1880, pp.331 ss.
Cf. B.Freyer Schauenburg, Elfenbeine aus dem samischen Heraion, Hamburg 1966, pp.117-126; E.L.I.Marangou, Lakonische Elfenbein- und Beinschnitzerei, Tübingen 1969; J.Boardman, I Greci sui mari, pp.66-68.
Cf. il leone e leonessa da Belmonte Piceno in ambra (su questo gruppo e su altri con felino dalla necropoli di Belmonte cf. P.Marconi, La cultura orientalizzante nel Piceno, in "MAL" 35, 1933, cc.423-424; 417-421): si tratta di un soggetto di origine orientale particolarmente apprezzato in Ionia (Samo): A.E.Furtwängler, in "MDAI(A)" 96, 1981, pp.107-117; cf. Boardman, o.c., p.66, fig.32-33.  Altrettanto dicasi della statuetta del dio egizio Bes in ambra, rinvenuta a Vetulonia (D.Massaro, Le ambre di Vetulonia, in "SE" 18, 1943, p.42, tav.V.31 b.; e gli stessi scarabei erano oggetti magici concepiti per la prima volta dagli Egiziani.
L'autore, nel corso di una conferenza tenuta a Trento, ha sostenuto questa ipotesi in relazione al fatto che le offerte in ambra ad Artemide Efesia, tipiche del VIII secolo, vennero sostituite nel VII da offerte in oro.
Cf. soprattutto M.Martelli, in Il commercio etrusco arcaico. Atti dell'Incontro 1983, Roma 1985, pp.207 ss.  
Marconi, o.c., cc.403-405; 421; Negroni Catacchio 1978, p.185.  Alla stessa scuola di scultura si deve attribuire una complessa bulla con Gorgone al centro e maschere sul bordo, rinvenuta a Belmonte e databile alla prima metà del VI secolo: Marconi, cc.421-3, tav.XXIV.5,4.  Come confronto cf. la statuetta eburnea da Vulci, coeva, conservata a Roma, Villa Giulia: Cristofani-Martelli, L'oro degli Etruschi, Novara 1983, nr.110 a.
Marconi, o.c., tav.XXIX.1; Landolfi, o.c., fig.293.
 La cultura hallstattiana è quella tipica dell'Europa centrale e occidentale nella prima metà del I millennio a.C.  Sul ritrovamento di Grafenbühl: H.V.Herrmann, in "Germania" 44, 1966, pp.83-85; 100-102, tav.12; J.Fischer, in "Germania" 68, 1990, pp.115 ss.; cf. J.Boardman, I Greci sui mari. Traffici e colonie, tr.it., Firenze 1986, p.244.  Queste sfingi erano ornamento di mobili funerari.  Orbene, lo scolio ad Aristofane, Cavalieri 532 a, p.133 ed.Mervyn-Wilson, ed Eustazio (1483; Commento a Iliade IV.73) dicono che anticamente le zampe dei letti o dei triclinii erano ornate con elementi d'avorio e ambra; Fozio, Lexikon, s.v.elektrai,  precisa che questi ornamenti erano a forma di sfinge ed avevano gli occhi d'ambra.  Una coppia di occhi in avorio con iride in ambra proviene dal santuario di Atena a Siracusa: P.Orsi, in "MAL" 25, 1918, pp.598-9, fig.198.
Al Convegno sulla Magna Grecia del 1989, cf. Fischer, pp.120-1..
C.Rolley, Les vases de bronze de l'archaïsme récent en Grande Grèce, Napoli 1982, pp.97-100.  Si tratta, in particolare, della famosa hydria di Grächwyl, realizzata da artigiani greci (probabilmente laconici) che produssero oggetti analoghi rinvenuti nel Piceno, donde provengono anche loro imitazioni locali.
Cf. Marconi, o.c., c.412; D.Lollini, La civiltà picena, in Popoli e civiltà dell'Italia antica, V, Roma 1977, pp.163-164; Landolfi, o.c., p.330.
Herrmann, o.c.; M.Borda, Arte dedalica a Taranto, Pordenone 1979,p.134.
Cf. Bottini e Bianco, opere citate.
Cf. Strong, p.22.  Nei secoli VIII-VII si produssero in Italia fibule "a sanguisuga" con dischi d'ambra e osso alternati sull'arco; in ambito istriano, liburnico e nella Slovenia orientale tali fibule sono attestate anche nei secoli VI e V: Batoviçv, o.c., pp.66-67.  Da notare che Aristofane (Cavalieri 531) attesta che in Grecia si usava ambra per decorare le lire, ed Eustazio (1483 Commento a Iliade IV.73) afferma che si usava ambra per realizzare impugnature di spade, le quali potevano attirare delle pagliuzze col magnetismo.  Una spada con impugnatura in ambra è stata rinvenuta nella tomba Barberini di Praeneste: F.Canciani, in Civiltà del Lazio primitivo, Roma 1976, p.236, nr.39, cf. l'impugnatura p.241, nr.76.
Cf. le testine bronzee di una classe di collane picene (gli "anelli piceni") del VI secolo, sulle quali cf. M.Szabó, Rapports entre le Picenum et l'Europe extra-méditerranéenne à l'âge du fer, in "Savaria" 16, 1982, p.224, fig.2-3; p.228, fig.10; p.232, fig.20.
G.Pesce, in EAA, I, s.v. ambra, p.313, pensava che tra le ambre di Efeso vi fossero importazioni dal Piceno.  Interessante è notare la presenza di fibule medio-adriatiche in santuari greci d'epoca arcaica, cf. M.Landolfi, in La formazione della città in Emilia-Romagna, III, Bologna 1987, p.188; sui materiali italici presso santuari greci arcaici: I.Kilian-Dirlmeier, in "Jahrbüch des römisch-germanischen Zentralmuseum. Mainz" 32, 1985, pp.215 ss.
Cf.J.Boardman, Greek Gems and Finger Rings, London 1970, pp.152 ss., 403; Id., Intaglios and Rings Greek, Etruscan and Eastern from a private Collection, London 1975, pp.37 ss., 102-103; M.Martelli, in Civiltà degli Etruschi, a cura di M.Cristofani, Milano 1985, pp.175; 179; 221; Cristofani-Martelli, L'oro degli Etruschi, p.57.
In un'area corrispondente alle attuali Francia, Svizzera, Germania e Austria.  Cf., per es., Trésors des princes celtes, Paris 1987.  Sulle attestazioni di ambra in ambito hallstattiano cf. J.Déchelette, Manuel d'Archéologie préhistorique, celtique et gallo-romaine, III, Paris 1908, pp.360-363.
Cf. M.Szabó, Rapports entre le Picenum et l'Europe extra-méditerranéenne à l'âge du fer, in "Savaria" 16, 1982, pp.223 ss.
Cf. G.Camporeale, in "SE" 54, 1986, pp.3 ss.
Cf. T.Malinowski, L'ambre jaune baltique et le problème de son exportation pendant les premières périodes de l'âge du fer, in "Savaria" 16, 1982, pp.113 ss.
Il termine "commercio" è qui usato per comodità, tenendo presente che non si trattava di traffici organizzati e regolari, paragonabili ai commerci moderni, o anche solo a quelli d'età romana, ma di scambi più o meno occasionali.  Cf. B.Bouloumié, in "Savaria" 16, 1982, pp.181 ss. Sui materiali etruschi in area baltica e sul problema della mediazione hallstattiana: J.Fogel-T.Makiewicz, in "SE" 55, 1989, pp.123 ss.
Su questi fenomeni cf. i contributi di O.-H.Frey e di L.Pauli, in Gli Etruschi a nord del Po (a cura di R.De Marinis), II, Mantova 1987, pp.11 ss. e 18 ss.
Il Bouloumié, o.c., p.182, propone un'osservazione che va abbinata con quella avanzata da noi: nel IV secolo si rarefanno sia i materiali etruschi nell'Europa centrale, sia le ambre in Italia.  Sulle possibili attestazioni di materiali etruschi in ungheria: J.Bouzek, Gli Etruschi e la Boemia, in "SE" 53, 1985, pp.17 ss.
Cf. Eschilo, Supplici 249-259.  Cf. E.Luppino, I Pelasgi e la propaganda politica del V secolo a.C., in "Contributi dell'Istituto di Storia Antica" I, Milano 1972, pp.71 ss.; Braccesi, Grecità adriatica, Bologna 19772, pp.168-173.
I.18.  Cf. Giustino XX.1.1: Spina fondata dai Tessali (= Pelasgi) in territorio umbro.
Qui si intende l'Adriatico, detto anticamente "golfo Ionico".
Probabilmente Ellanico, a sua volta, si rifaceva ad Ecateo; cf. Braccesi, o.c., p.22, n.36 (ove bibliografia); D.Briquel, Les Pélasges en Italie, Roma 1984, pp.125-126.
Strabone V.1.7; IX.3.8; Plinio, Storia naturale III.120; cf. Polemone, in Ateneo XVII.606 A.  Per l'interpretazione della leggenda pelasgica di Spina in chiave etrusca cf. Briquel, cap.I.
Cf. Briquel, pp.13-15.
Cf. Briquel, p.39.
Pseudo Scilace 17; Strabone V.1.7; cf. Giustino XX.1.1.
Attestati da graffiti: P.Saronio, in Civiltà degli Etruschi, a cura di M.Cristofani, Milano 1985, pp.186-187, ove bibliografia anteriore.  
Cf. il bilancio del Briquel, pp.8-11.
Briquel, pp.21-22.
Tale tradizione è presa in esame dal Briquel, pp.60-62, ma essa merita un ulteriore approfondimento.
Per il quale è difficile stabilire una datazione precisa (cf.P.M.Frazer, Ptolemaic Alexandria, Oxford 1972, pp.454, 771-2; Briquel, p.60, n.18) e, ancor più, identificarne le fonti.  J.Geffken, Timaios Geographie des Westens, Berlin 1892, p.91, pensa a Timeo, il quale criticava Teopompo circa le isole Elettridi; F.Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker, 556, Kommentar, III b, p.334, n.352 e A.Giannini, Paradoxographorum Graecorum reliquiae, Milano s.d., p.254, pensano invece a Teopompo stesso quale fonte del racconto pseudoaristotelico.
Questo è probabilmente il caso della stessa fonte del brano di Dionisio già menzionato, nel quale non si parla mai di Etruschi, ma solo di Pelasgi, i quali non si identificano con i primi; cf. Briquel, pp.38-42.
Strabone V.1.7; cf. Briquel, cap.II. 
Responsabile della distinzione dei Pelasgi dagli Etruschi (nonchè della tradizione sulla loro ostilità reciproca) fu probabilmente Filisto, storico del IV secolo a.C., portavoce della politica dei tiranni siracusani; cf. Dionisio di Alicarnasso I.22.4 = Filisto, 556, F 46 Jacoby.  Briquel, pp.42-47.
G.M.A.Hanfmann, Daidalos in Etruria, in "AJA" 39, 1935, pp.189 ss.; cf. G.Becatti, Oreficerie antiche, Roma 1955, tav.LXXVIII.316.  I due personaggi hanno in mano strumenti da artigiano, quali la sega e l'ascia.  La datazione dell'oggetto è agli inizi del V.  Debbo la precisazione circa il tipo di alfabeto all'amico G.Sassatelli, il quale pubblicherà un contributo dedicato, fra le altre cose, anche a Dedalo e Icaro nella Padana etrusca, per gli Atti del Convegno Anathema, Roma 1989.
E.Brizio, in "NS" 1890, pp.140-141;  cf. P.Ducati, in "MAL" 20, 1920, cc.373-4, n.12; J.E.Nyenhuis, Daidalos et Ikaros, in LIMC III.1, pp.314-6.  La datazione della stele è alla fine del V secolo - inizi del IV a.C.  Dunque guardava nella giusta direzione il Braccesi (Grecità adriatica, p.41;cf. anche Id., Statue di Dedalo e Icaro nell'area del delta padano (nota a Ps.Aristot. 836 a-b, mir.81), in "Studi Romagnoli" 19, 1968, pp.43 ss.) quando ipotizzava, a proposito delle statue di Dedalo e Icaro, l'esistenza di qualche monumento dell'arte felsinea.
Cf. Briquel, pp.58 e 118-123.
Pirro 1; cf. Briquel, p.58.  Si conosceva anche un Fetonte padre di Eretrieo, capostipite della città euboica di Eretria (Stefano di Bisanzio, s.v. Eretria).
Cf. § 3.
Scolio a Teogonia 1013, p.123 Di Gregorio; peraltro, i versi finali della Teogonia sono un'aggiunta del VI o del V secolo a.C. all'opera di Esiodo: cf. M.L.West, Hesiod, Theogony, Oxford 1966, pp.397-8.
Sulle etnie di Adria preromana cf. A.Mastrocinque, Graffito vascolare del Museo di Adria, in Letture e riletture epigrafiche, a cura di L.Braccesi, Roma 1988, pp.18-19.
Cf. G.Colonna, in "SE" 42, 1974, pp.3 ss. e anche L.Bosio, I porti e le vie di traffico nella fascia lagunare veneta prima della conquista romana, in Venetia, I, Padova 1967, p.17, n.5; Mastrocinque, o.c., p.18.
Cf. Bosio, o.c., pp.27 ss.; Id., Note per una propedeutica allo studio storico della laguna veneta in età romana, in "AIV" 142, 1983-84, pp.95 ss.; R.Peretto, in L'antico Polesine, Adria-Rovigo 1986, pp.83-87.
Plinio, Storia naturale, III.120.
Cf. G.Uggeri - S.Patitucci, Topografia e urbanistica di Spina, in "SE" 42, 1974, pp.69 ss.
Cf. U.Dallemulle, Topografia e urbanistica dell'antica Adria, in "AqN" 48, 1977, cc.169-170 (contra: R.Scarani, Dati per una carta archeologica del Polesine, in "Padusa" 7, 1971, p.6); L.Sanesi Mastrocinque, in "AqN" 58, 1987, cc.416 -7.
Cf.G.Uggeri - S.Uggeri Patitucci, Topografia e urbanistica di Spina, in "SE" 42, 1974, pp.69 ss.
G.Magica, Cenni idrografici e storici sull'antico delta padano, Ferrara 1925, p.40; su questo ed altri insediamenti minori dell'area deltizia prossimi a Spina cf. S.Patitucci Uggeri, Voghiera: un nuovo insediamento etrusco del Delta Padano, in "SE" 47, 1979, pp.93 ss., part. p.104
Cf. M.De Min - E.Iacopozzi, in L'antico Polesine, pp.171-184 (ritrovamento di una perla d'ambra: p.179); cf. L.Salzani - D.Vitali, in "Quaderni  di Archeologia del Veneto" 4, 1988, pp.37-40.
M.De Min, in L'antico Polesine, pp.171-172.
M.Tombolani, in Gli Etruschi a nord del Po, II, Mantova 1987, p.102.
Tombolani, o.c., pp.99 e 103.
Cf. M.Tombolani, Altino e la laguna di Venezia nella protostoria, in Le origini di Venezia. Problemi e proposte, Venezia 1981, p.93; Id., in Altino preromana e romana, Quarto d'Altino 1985, pp.55-56; W.Dorigo, Venezia. Origini, I, Milano 1983, p.285, fig.192-193 (da S.Leonardo in Fossa Mala) e p.293, fig.198-200.  Altra ceramica greca dalla laguna di Venezia è in corso di studio.
Secondo Stefano di Bisanzio, s.v. Elektrides nesoi, gli abitanti di queste isole si sarebbero chiamati Elettridi o Elettrini.
Cf. Peretto, o.c., pp.83-87; cf. anche P.Tozzi, Memoria della terra. Storia dell'uomo, Firenze 1987, pp.44-45.
Livio X.2.5; cf. L.Braccesi, L'avventura di Cleonimo, Padova 1990.
Cioè delle fonti dello Pseudo-Aristotele.
Pseudo-Scimno 392-3, in Geographi Graeci Minores, I, p.212. Sulle Cassiteridi cf. J.Ramin, Le problème des Cassitérides et les sources de l'étain occidental dépuis les temps protohistoriques jusqu'au débout de notre ère, Paris 1965.
R.L.Beaumont, Greek Influence in the Adriatic Sea before the Fourth Century B.C., in "JHS" 56, 1936, p.190; G.Bermond Montanari, Problemi sulla diffusione e sul commercio della ceramica attica nell'Italia settentrionale, in Cisalpina, Milano 1959, p.307; N.Alfieri, Problemi di Spina, ibidem, p.99; Briquel, p.11, n.47.  Sugli oggetti etruschi rinvenuti in Boemia: J.Bouzek, Gli Etruschi e la Boemia, in "SE" 53, 1985, pp.17 ss.
Plinio, Storia naturale III.120.
Diodoro IV.78; cf. anche Vibio Sequestre, Sui fiumi I.17 (circa Megara).
Scarabei etruschi intagliati del British Museum: Zazoff, Etruskische Skarabäen, nr.14, tav.5.14 e nr.20, tav.8.20; scarabeo del Museo di Orvieto (fig.34), proveniente da una necropoli orvietana: Zazoff, nr.19, tav.8.19; scarabeo (disperso) proveniente da Marzabotto: G.Muffatti, Paste vitree, alabastri, oggetti in osso, avorio e ambra, in "SE" 35, 1967, p.469, tav.LXXVI a 21; tre scarabei della Bibliothèque Nationale di Parigi e due scarabei del British Museum: J.Boardman, Archaic Greek Gems, Evanston 1968, pp.162-3, nr.116, 128, 136; scarabeo dell'Ermitage Zazoff, nr.11 = Boardman, Greek Gems and Finger Rings, London 1970, p.153, nr.413 = O.J.Neverov, in "SE" 49, 1981, pp.18-19, al cui dritto è raffigurato Achille morto portato sulle spalle di Aiace, con didascalie in etrusco.  Sono affini alle produzioni del Maestro quattro intagli su superficie piatta raffiguranti esseri femminili alati, conservati al British Museum: Boardman, o.c., p.164, nr.596 (= Zazoff, nr.20), 597, 599, 600, ed uno analogo conservato a Vienna: Boardman, o.c., p.164, nr.598 (= E.Zwierlein-Diehl, Die antiken Gemmen des Kunsthistorischen Museums in Wien, I, München 1973, tav.3, nr.10).  Cf. inoltre le gemme stilisticamente affini, ma di qualità inferiore: Boardman, o.c., pp.164-5, nr.601-9.
Zazoff, nr.14.
Cf. P.Zazoff, Etruskische Skarabäen, Mainz 1968, pp.17 ss.; J.Boardman, Greek Gems, pp.186-187; Id., Intaglios and Rings Greek, Etruscan and Eastern from a private Collection, London 1975, pp.37-39; J.Boardman-M.-L.Vollenweider, Ashmolean Museum. Catalogue of the engraved Gems and Finger Rings, I, Oxford 1978, p.49-50; Vollenweider,Die Porträtgemmen der römischen Republik, Mainz 1972, p.3; P.Zazoff, Die antiken Gemmen, München 1983, pp.216-217; M.A.Rizzo e M.Scarpignato, in Civiltà degli Etruschi (a cura di M.Cristofani), Milano 1985, p.222.  Su Dedalo in altri scarabei etruschi: Boardman, Intaglios, p.43.
Zazoff, Etruskische Skarabäen, nr.16-17; Boardman, Intaglios, nr.121.  Da notare che l'uno e l'altro intagliatore usavano rappresentare il suolo su cui poggiano i loro personaggi con triangoli alternati di linee.
Cf.M.Delcourt, Héphaistos ou la légende du magicien, Paris 1957.
In particolare per Tetide, madre di Achille, e per Eurinome, figlia di Oceano: Omero, Iliade XVIII.397-402.  In qualche modo Efesto era legato, secondo la tradizione, all'origine dell'arte glittica, perchè si diceva (Plinio, Storia naturale XXXVII.2) che il primo anello fu realizzato con la roccia del Caucaso alla quale Prometeo era stato legato dalle catene di Efesto (cf. Eschilo, Prometeo incatenato, 1 ss.).
Cf. M.A.Rizzo, in Civiltà degli Etruschi, p.222.
Strong, nr.37 (satiro o Atlante con le mani alzate per sorreggere qualche cosa).  Lo scarabeo di Boston è citato due note più in alto.  Il confronto fra i due reperti è proposto dal Boardman, Archaic Greek Gems,  p.163.  L'incisione del sigillo sullo scarabeo di Boston raffigura Atena e un'altra dea che assistono al confronto fra Eracle e un vecchio, nel quale si è proposto di riconoscere Nereo (cf. Zazoff, p.18; Boardman, Intaglios, p.39; G.Colonna, in LIMC, II.1, s.v.Athena/Minerva, p.1067, nr.200).  Non escludo che si tratti invece di Dedalo e di una delle sue famose statue di Eracle, credute viventi (su questo mito cf. Apollodoro II.6.3; Pausania VIII.35.2; IX.11.4; Esichio, s.v. plexanta kai plegenta).  Il Maestro non seguiva certamente la norma di Pitagora che proibiva di raffigurare gli dei nelle gemme degli anelli (cf. Diogene Laerzio VIII.17; Giamblico, Vita Pitagorica 84).
Diogene Laerzio VIII.1 (che riporta una versione secondo la quale Mnesarco sarebbe stato un etrusco, originario di isole egee, forse, pertanto, di Lemno); Apuleio, Florilegio II.15.3.
Erodoto III.40-42.
Erodoto III.41.
Cf. P.Moreno, in EAA, VII, s.v. Theodoros, pp.811-812.
Che avrebbe realizzato "a Lemno" insieme a Rhoikos (l'architetto dell'Heraion di Samo): Plinio, Storia naturale XXXVI.90: dunque il tempio costruito dai due artisti era paragonato al Labirinto; cf. L.Bernabò-Brea, in EAA, IV, s.v.Lemno, p.544 e Moreno, o.c., p.812.
Pausania IX.41.1; Plinio, Storia naturale VII.198.
F.Frontisi-Ducroux, Dédale. Mythologie de l'artisan en Grece ancienne, Paris 1975, pp.132-133.  Dello scultore Endoios, quasi contemporaneo di Teodoro, si diceva che fosse stato scolaro e compagno di Dedalo (Pausania I.26.4); lo scultore Smilis (che lavorò all'Heraion di Samo) sarebbe stato contemporaneo di Dedalo: Pausania VII.4.4.
Erodoto III.122.2.
Cf.G.Schmidt, in "MDAI(A)" 86, 1971, pp.40-41.
Plinio, o.c., XXXIV.83.
G.Körte, in "Archäologische Zeitung" N.F.10, 1877, pp.110 ss., part.114-116.  Si consideri però che la gemma poteva essere più antica, anche di molto, rispetto alla ceramica del corredo.
Cf. P.Orlandini, in EAA, VI, s.v.Pitagora, pp.573-575.
Testimonia linguae Etruscae, a cura di M.Pallottino, Firenze 19682, 131; cf. J.Heurgon, in "REL" 35, 1957, pp.106 ss.
Cf. M.Pallottino, Etruscologia, Milano 19847, tav.LX; D.Briquel, in "Latomus" 49, 1990, pp.330-3, circa uno specchio di Vulci.
Cf. F.Coarelli, Il Foro romano, II, Roma 1985, pp.115-118.
La Negroni Catacchio da tempo sta preparando un corpus delle ambre scolpite.
Nella fondamentale opera dello Strong sulle ambre del British Museum (pp.29-31) è stata proposta una prima, basilare partizione stilistica tra le sculture, sulla base della realizzazione delle teste umane, fra le teste con grandi occhi e gli altri tipi di teste.
G.M.A.Richter, Handbook of the Etruscan Collection, New York 1940, p.31, fig.97-98.  La dea (definita spesso come Afrodite dai moderni) è raffigurata con cappello conico e calzature a punta rialzata, in mano ha un portaprofumi.  La provenienza da Falconara non è esente da dubbio per il fatto che da questa località non provengono reperti di scavo preromani.
O.c., p.32, fig.104-5.
O.c., p.32, fig.101.
Strong, nr.54, 56-58, 60.  Due facce di stile ionico, provenienti da Taranto, sono al Paul Getty Museum, cf. F.Causey-Frel, Studies on Greek, Etruscan and Italic Carved Ambers, Ph.D. Diss. Univ.of California 1984 (microfilm), pp.85-97.
Strong, nr.59, cf. la nr. 55, priva di dati sulla provienza.
Strong, nr.41.  Lo Strong, p.66, menziona, come confronto, una simile figura in avorio, trovata in Etruria, insieme a nove elementi in ambra (tra i quali tre lepri, una testa di ariete e 5 aryballoi): K.A.Neugebauer, Antiken in deutschen Privatbesitz, Berlin 1938, nr.255-6.
Di fattura greca secondo Strong, p.24, n.4 (che crede importate dall'Italia gran parte delle ambre di Novi Pazar: p.66) e J.Boardman, I Greci sui mari. Traffici e colonie, tr.it., Firenze 1986, p.260. Cf. le due teste d'ambra, di cui una elmata (fig.50), dalla necropoli di Prozor: R.BiΩ±içv-Drechsler, in "Vjesnik Arheoloß±kog Muzeja u Zagrebu" ser.III.21, 1988, pp.27-28, tav.2.1.
D.Mano-Zisi - Lj.B.Popoviçv, Novi Pazar. Ilirsko-grç±ki Nalaz, Beograd 1969 (placchette: pp.81-83, teste: pp.83-84; fanciulle: p.83).
La presenza di collane fatte con pezzi d'ambra non lavorata permette di inferire che le ambre lavorate di Atenica erano di importazione.
M.Djukniçv - B.Jovanoviçv, Illyrian princely Necropolis at Atenica, Caç±ak 1966, pp.9-10, tav.X, XVI, XXI; cf. B.Jovanoviçv, Les bijoux en ambre dans les tombes princières de Novi Pazar et d'Atenica,  in Hommages à D.Mano-Zisi, Beograd 1975, pp.65 ss.
C.Lazzeri, in "SE" 1, 1927, pp.113 ss., tav.VIII (dispersa).
R.Heidenreich, Über einige Bernsteinarbeiten, in "Wissenschaftliche Zeitschrift der Univ.Rostock" 17, 1968 (= Festschrift G.von Lücken), pp.655-656, tav.8.1-2; 4-5.
Heidenreich, pp.656-657, tav.9.1-3.
Strong, pp.30 e 32.
Causey-Frel, pp.65-84.
J.de La Genière, Ambre intagliate del Museo di Salerno, in "Apollo" 1, 1961, p.76; Ead., Recherches sur l'âge du fer en Italie méridionale, Sala Consilina, Napoli 1968, p.203.  Debbo alla cortesia della prof.de La Genière (cui era stato affidato lo studio di questi reperti) la possibilità di pubblicare alcune di queste ambre (oltre a quella in fig.22). La Negroni Catacchio 1978, p.188, segnala la presenza di protomi di ariete da Sala Consilina.
Cf. le donne-api, sacerdotesse di Apollo, alla fine dell'Inno omerico ad Hermes.  Il tema del rapimento dell'anima da parte delle Arpie è raffigurato, per esempio, sulla tomba delle Arpie di Xanto (al British Museum); cf. G.Cressedi, in EAA, I, s.v.Arpia, pp.670-1.
L'Arpia con copricapo conico trova confronto in una fibula aurea etrusca, probabilmente da Vulci, databile alla seconda metà del VI secolo, con due simili Arpie: G.Bordenache, in Il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma 1980, nr.38; Cristofani - Martelli, L'oro degli Etruschi, nr.169.  Secondo la Negroni Catacchio 1989, pp.694 e 696, si tratta di ambre greche.
Cf. Mostra dell'arte e della civiltà etrusca, Milano 19552, tav.XLIII, nr.255 (esemplare al Louvre); G.Q.Giglioli, L'arte etrusca, Milano 1935, tav.121.3-4: due esemplari ai Musei Vaticani; cf. le figurine auree etrusche Becatti, nr.283-5.  Cf. le tre fanciulle provenienti dall'Italia meridionale definite ioniche dalla Causey-Frel.  Bisogna però attendere la loro pubblicazione.
Strong, nr.42.
M.C.De Angelis, La necropoli di Colle del Capitano, in La Romagna tra VI e IV secolo a.C. nel quadro della protostoria dell'Italia centrale, Bologna 1985, pp.287-8; cf. Negroni Catacchio 1989, p.662.
Il quale, peraltro, è stato anche ritenuto di fattura greca: F.Kredel, Ein archaisches Schmuckstück aus Bernstein, in "JDAI" 38-39, 1923-24, pp.169 ss.; M.Landolfi, in Italia. Omnium terrarum alumna, Milano 1988, p.332 (per il gruppo di "sposi" e per il gruppo leone-leonessa, da Belmonte Piceno, al Museo di Ancona).  Nel gruppo raffigurante gli "sposi" la dea è vestita con cappello a punta e calzata, mentre lo sposo è scalzo e a petto nudo, senza copricapo, secondo lo schema delle coppie etrusche di sposi su triclinio: cf. i famosi sarcofagi fittili da Cerveteri al Louvre e al Museo di Villa Giulia, ma anche la scena di banchetto su una lastra fittile da Velletri (Civiltà degli Etruschi, p.266, nr.10.9.4) con uomo a capo scoperto, donna con cappello a punta e piccolo inserviente ai loro piedi.  Dunque, se si vuole credere che si tratti di un'opera greca, si dovrà pensare ad un artista greco operante in Italia, che scolpiva soggetti ispirati alla cultura etrusca.
Ad es. la testina Strong, nr.57 (fig.40), va confrontata con certe protomi femminili greche: F.Croissant, Les protomés féminines archaïques, Paris 1983, gruppo G3.  Secondo la Negroni Catacchio 1989, p.696, le ambre di Armento sono collegabili con quelle di Sala Consilina e del Piceno, attribui-bili ad artisti ionici che lavoravano per committenti indigeni.  Le teste e le statuine dei musei tedeschi, di Atenica e Novi Pazar formano un gruppo a sè.
Come si vedrà a proposito del toro retrospiciente a testa umana.
Cf.de La Genière, A propos du Catalogue des ambres sculptées du British Museum, in "Rev.Arch." 1967, pp.298-299.
De La Genière, o.c., p.298, fig.1.
Strong, nr.44-45; 47-50; 52.
Inv. 13480; cf. de La Genière, l.c.
Heidenreich, o.c., p.657, tav.9.10.
De La Genière, l.c.
Marconi, o.c., cc.414-415; 425-427, fig.50 e tav.XXXI.
M.Yon, Les bijoux d'ambre de la nécropole d'Aléria (Corse), in "MEFRA" 89, 1977, p.603, nr.3208 b/1e b/4, fig.5.
L.Franchi Dell'Orto - A.La Regina, Culture adriatiche d'Abruzzo e di Molise, II, Roma 1978, p.361, tav.156.
Negroni Catacchio 1989, p.680: Cocullo (L'Aquila), Villalfonsina, Torrevecchia Teatina (Chieti).
Catalogo della mostra dell'Etruria padana e della città di Spina, Bologna 1960, p.367, nr.1190 (tomba 740 B).
O.c., nr.1086 (testa di ariete dalla tomba 409, della seconda metà del V secolo); pp.367-368, nr.1190 (testa femminile associata alla testa di satiro nella tomba 740 B); N.Alfieri - P.E.Arias, Guida al Museo Archeologico di Ferrara, Firenze 1960, p.141; F.Berti, Il museo archeologico nazionale di Ferrara, Bologna 1983, fig.53.  Una delle teste di ariete faceva parte di un orecchino: Negroni Catacchio 1978, p.197.  Da Spina provengono, inoltre, molti elementi di collane in ambra.
G.Fogolari - B.M.Scarfì, Adria antica, Venezia 1970, p.76, nr.49; M.L.Nava, in Ambra oro del Nord. Catalogo della mostra Venezia 1978, p.91, nr.846; M.De Min, in Gli Etruschi a nord del Po, a cura di R.De Marinis, II, Mantova 1987, p.65.
Cf. Negroni Catacchio 1989, p.662.
A.Zannoni, Gli scavi della Certosa di Bologna, Bologna 1876, tav.XXXXVIII; cf. G.Muffatti, Paste vitree, alabastri, oggetti in osso, avorio e ambra, in "SE" 35, 1967, tav.LXXVII a;  associate a una lekythos attica a figure nere del Pittore di Gela (primi decenni del V secolo): CVA Bologna, III Ja, tav.1.2; J.D.Beazley, Attic Black-Figure Vase-Painting, Oxford 1956, p.473.132.
Zannoni, tav.CXVI, associata a un cratere attico a figure rosse del pittore di Leningrado (secondo venticinquennio del V secolo): J.D.Beazley, Attic Red-Figure Vase-Painting, Oxford 19632, p.567.7.
Negroni Catacchio 1978, p.191 e fig.30.  Il foro pervio è più in basso di quello che sembrerebbe essere l'appiccagnolo, che non è forato.
Negroni Catacchio 1989, p.462.
Gli Etruschi del Nord. Bologna (in greco), Catalogo della Mostra Salonicco 1988, a cura di G.Sassatelli, Bologna 1988, nr.249, in un contesto di V secolo.  Inoltre abbiamo un leone inserito sull'arco di una fibula dalla necropoli Arnoaldi: Negroni Catacchio 1978, p.181 e fig.15, e un pesce, dall'Arsenale: C.Morigi Govi, in "Archeologia Classica" 23, 1971, p.229; queste due sculture sono più antiche di quelle di cui ci stiamo occupando ora.
Cf. Strong, p.28.
Negroni Catacchio 1989, fig.463.
G.Gozzadini, Di ulteriori scoperte nell'antica necropoli a Marzabotto nel Bolognese, Bologna 1870, tav.15, cf. pp.46-47; G.Muffatti, o.c., pp.472-477, tav.LXXVI b.  Oltre alle ambre scolpite, si sono rinvenuti, in questi siti, molti grani d'ambra; si segnala, in particolare, la collana trovata presso l'insediamento di S.Martino in Gattara (Ravenna): G.Bermond Montanari, in "SE" 37, 1969, p.217 e fig.3.
A.De Ridder, Musée National du Louvre. Catalogue sommaire des bijoux antiques, Paris 1924, nr.2123.
Inv. E 1579 (lungh. cm.6,5).  Esso proviene dalla collezione Chouvaloff.  Ai Musei Vaticani si conserva una figura di animale (inv. 13474) realizzata in una tecnica analoga a quella dei reperti in esame.
Strong, nr.68 e 70.
Strong, nr.87-88, cf. nr.81-86 di provenienza incerta.
Mano Zisi - Popoviçv, o.c., nr.32.
Al British Museum: Strong, nr.75 e 78.
M.Djukniçv - B.Jovanoviçv, Illyrian princely Necropolis at Atenica, Caç±ak 1966, pp.9-10, tav.X, XVI, XX-XXI.
A.de Agostino, in "NS" 1961, p.67, fig.5 (insieme a ceramica databile al 460-420 a.C.); A.Minto, Populonia, Firenze 1943, p.177.  Populonia era in stretto contatto con Felsina, come è provato da reperti in bucchero, in bronzo nonchè dalle ambre intagliate: M.Martelli, Populonia: cultura locale e contatti con il mondo greco, in Le'Etruria mineraria. Atti XII Conv. di Studi Etruschi e Italici, 1979, Firenze 1981, pp.413-9.  Su altre teste d'ariete di provenienza diversa, cf. Negroni Catacchio 1978, p.188, 191 e n.52.
Marconi, o.c., c.423, fig.49; un'altra, da Monte Giorgio (o.c., c.415, fig.47), è un po' diversa.
M.Yon, Les bijoux d'ambre de la nécropole d'Aléria (Corse), in "MEFRA" 89, 1977, p.595, nr.2419 c/15, c/18; cf. 2419 c/12, fig.2-3 (insieme a ceramica databile al 460-400 a.C.).
Per un confronto con una testa di ariete da Castiglione Casauria (Pescara) cf. Negroni Catacchio 1989, p.680.
H.Hoffmann, in "Archäologischer Anzeiger" 84, 1969, p.365, fig.50, in questo articolo si pubblicano anche due figure di leone in ambra.
La cui forma richiama la conchiglia sul retro del toro retrospiciente e che trova un confronto in un'anfora raffigurata su uno specchio felsineo: G.A.Mansuelli, in "SE" 19, 1941, pp.99 ss.; Corpus speculorum Etruscorum, Italia, 1: Bologna (a cura di G.Sassatelli), I.1, Roma 1981, nr.39 (metà del V secolo a.C.).
L.Pollak - A.Muñoz, Pièces de choix de la collection du comte Grégoire Stroganoff à Rome, Roma 1912, tav.XLVII.1 (al Louvre).
G.Lo Porto, in Locri Epizefirii, Atti XVI Conv.Magna Grecia, Napoli 1977, pp.742-743, tav.CXV.  La necropoli di Rutigliano ha restituito moltissime altre ambre intagliate (ora al Museo di Taranto), che non sono ancora state pubblicate.  Cinque teste di satiro inedite, di diversa provenienza, sono menzionate dalla Causey-Frel, p.126.
N.Negroni Catacchio, Un pendaglio in ambra in forma di protome maschile, in "Notizie dal Chiostro (Rassegna di studi del Civico Museo Arch. e del Civ.Gabinetto Numismatico di Milano)" 15-18, 1975-76, pp.37 e 39, tav.XXV.
G.Q.Giglioli, L'arte etrusca, Milano 1935, tav.CCCLXXVI.1.  La comune provenienza prenestina e la coerenza stilistica dei tre pezzi potrebbero suggerire l'ipotesi di una produzione locale?  Altra testa di satiro ai Musei Vaticani: Inv. 13476.
B.Nogara, in "Rendiconti Pont.Accad.Arch." 6, 1927-29, p.130, fig.4.  Da Canosa viene un personaggio (satiro o Atlante?) in ambra, di qualità non elevata, che sembra sorreggere qualche cosa: Strong, nr.37.
Negroni Catacchio, o.c.
Heidenreich, o.c., p.656, tav.8.3.
Strong, nr.61.
Negroni Catacchio 1978, pp.175, 195; de La Genière, Ambre intagliate del Museo di Salerno, in "Apollo" 1, 1961, p.84.
De La Genière, o.c., pp.81-82, fig.20-22.
A.Bottini, Ambre a protome umana dal Melfese, in "Bollettino d'Arte" 41, 1987, pp.9, 11, tav.III a, C-D (in contesti di prima metà del V secolo).  Altre teste di satiro da Metaponto (Strong, p.74), Oliveto Citra (Salerno), dal territorio di Bari, da Ruvo (al Museo di Napoli), dalla Lucania (al Museo di Berlino) sono inedite (Negroni Catacchio 1978, p.195).
Loc.Pisciolo: G.Tocco, in Popoli anellenici in Basilicata, Napoli 1971, p.125, tav.LIII (seconda metà del V secolo); loc. Banzi: Bottini, o.c., pp.2, 4-5, 10, tav.I, II a-b-c e fig.14 (inizi del V secolo), p.6, tav.II d (fine V secolo). Le ambre del Melfese sono al Museo Nazionale di Melfi.   Due delle tre testine femminili di più elevato livello, fra quelle pubblicate dal Bottini, presentano un elemento che le distingue all'interno del gruppo grandi occhi: hanno la fascia di capelli sopra la fronte realizzata mediante lunghe linee che vanno dall'alto verso l'orecchio, oppure a festoni, mentre di norma quella fascia di capelli viene resa mediante fitte linee dall'alto verso la fronte.
Tocco, o.c., p.120, tav.XLIX (seconda metà del V secolo). 
N.Negroni Catacchio, Le ambre garganiche nel quadro della problematica dell'ambra nella protostoria italiana, in Atti Colloquio Internaz.Preistoria e Protostoria della Daunia, 1973, Firenze 1975, pp.310-319 (collezione privata).
Heidenreich, p.657, tav.9.8.  Lo Strong aggiunge a questo gruppo una figura di leone da Armento (nr.64), nonchè un gruppo con un leone che afferra una preda, da Belmonte Piceno (su questo e altri gruppi con felino dalla necropoli di Belmonte cf. P.Marconi, La cultura orientalizzante nel Piceno, in "MAL" 35, 1933, cc.423-424; 417-421; Negroni Catacchio 1978, pp.181 e 183; Causey-Frel, pp.98-117, che pensa a produzioni campane di ispirazione ionica; cf. anche supra, p.117, n.366).
Negroni Catacchio 1989, pp.963-4.
Strong, nr.51, 53.
La collezione Polese nel Museo di Bari, Bari 1970, tav.LXIII, nr.429; cf. il profilo femminile in ambra inserito su fibula nr.421; Negroni Catacchio 1989, p.693.
G.M.A.Richter, Handbook of the Etruscan Collection, New York 1940, pp.31-32, fig.99; p.32, fig.100 e 102.  Una delle due testine femminili presenta caratteristiche del tutto simili alla testina della tomba 100, necropoli della Certosa di Bologna.
P.C.Sestieri, Ambra intagliata da Oliveto Citra, in "Archeologia Classica" 4, 1952, pp.14-18, tav.X (Museo di Salerno).
B.Shefton, in "Archaeological Reports London" 1969-70, pp.58-59, fig.11-12.
Pollak - Muñoz, o.c., p.79, tav.XLVII.
Lo Porto, in Locri Epizefirii, cit., tav.CXV (seconda metà del V secolo).
R.BiΩ±içv-Drechsler, in "Vjesnik Arheoloß±kog Muzeja u Zagrebu" ser.III.2, 1961, pp.109-113, tav.XXVIII-XXIX.  Dalla stessa necropoli provengono una testina che forse è confrontabile con lavori piceni (tav.XXXIII.1), un uccello (tav.XXXIII.2), alcune rozze figure difficilmente descrivibili (tav.XXXIII.5-7, 9) e una figura forse femminile, priva di confronti (tav.XXX).  Sull'origine baltica delle ambre di Kompolje: J.M.Todd - M.H.Eichel - C.W.Beck - A.Macchiarulo, Bronze and Iron Age Amber Artifacts in Croatia and Bosnia-Hercegovina, in "Journal of Field Archaeology" 3.3, 1976, pp.321-322.  Sono stati recentemente scoperti esemplari del genere "grandi occhi" a Buccino (Salerno), a Carife (Avellino), scavi Johannowski, e, pare, anche a Oppido Lucano.
Inv. 13480.
Strong, nr.39.
M.C.De Angelis, La necropoli di Colle del Capitano, in La Romagna tra VI e IV secolo a.C. nel quadro della protostoria dell'Italia centrale, Bologna 1985, pp.287-8.
Yon, o.c., fig.3-5.
E.Gabrici, in "MAL" 22, 1913-14, c.716, fig.256; cc.610-611, fig.220 (al Museo Nazionale Archeologico di Napoli).
Yon, p.606, fig.6.
De La Genière, Ambre intagliate, cit., pp.77-81, fig.3-19 (le nr.2 e 3 sono paragonabili a quelle di Spina).
O.Onorato, La ricerca archeologica in Irpinia, Avellino 1960, p.34 e tav.28; de La Genière, A propos du Catalogue, cit., p.300, fig.5 (Museo di Avellino).
"NS" 1926, p.326.
A.Pontrandolfo Greco, Su alcune tombe pestane, proposta di una lettura, in "MEFRA" 89, 1977, pp.31 ss., in contesti databili al 380-370 a.C. ca.  La Causey-Frel, pp.13 e 33, informa che recentemente è finito nel mercato antiquario di Basilea un importante corredo da Cerveteri, comprendente ambre scolpite: un guerriero che sta cadendo, una Lasa (?), una Sirena, una specie di grossa sfinge, quattro teste femminili, 13 elementi di collana e due coppe (per cosmetici ?).  Sempre a Basilea è finita una statuetta d'ambra raffigurante un guerriero, trovata presso Taranto: Causey-Frel, p.21.  Da Selinunte è giunto al mercato antiquario parigino un gruppo di ambre: alcuni arieti seduti, una sfinge e un cinghiale: Ead., p.22.  In una collezione privata di Londra sono pervenuti un ariete, una sfinge, quattro teste femminili e altre dodici ambre difficilmente identificabili; in un'altra collezione, sempre a Londra, ci sono nove profili femminili, una lepre, una testa di satiro, la parte superiore di un gruppo di madre con bambino, un gruppo con guerriero che cade e una donna (Lasa ?): Ead., p.33.
Strong, nr.69.
Strong, p.78.
Strong, nr.64-5.
Cf. nota 405.
Strong, nr.35; sui problemi della provenienza: p.62; sul soggetto cf.J. de La Genière, A propos du Catalogue des ambres sculptées du British Museum, in "Rev.Arch." 1967, p.302, la quale propone il confronto con un intaglio in ambra del Cabinet des Medailles di Parigi, raffigurante Eracle contro un serpente, ma preferisce attenersi all'interpretazione dello Strong, come satiro e menade.  Th.Panofka, Antiques du Cabinet du comte de Pourtalès-Gorgier, Paris 1834, pp.24-25, pensava ad Artemide e Zeus; la Kredel, in "JDAI" 38-39, 1923-24, pp.178-9, ad Artemide ed un gigante.
Strong, nr.40.
Loc.Pisciolo: Tocco, o.c., p.125, tav.LII, in un contesto di seconda metà del V secolo.
Strong, nr.38 (al British Museum). Lo Strong paragona anche la testa di capra (?) da Canosa (nr.80, p.82) con le sculture del gruppo "grandi occhi".
Inv.13477.
R.Siviero, Gli ori e le ambre del Museo Nazionale di Napoli, Firenze 1954, p.132, nr.560.  La Causey-Frel, pp.118-135, presenta una statuetta (alta 28 cm.), proveniente dall'Italia meridionale e acquisita dal Paul Getty Museum di Malibù, raffigurante un personaggio in trono, forse un dio.  La statuetta è realizzata in più pezzi d'ambra saldati fra loro e congiunti da perni; la Causey-Frel la data alla metà del V secolo, ma purtroppo tutte le riproduzioni fotografiche alla fine della dissertazione della Frel sono assolutamente illeggibili.  Ella, a p.20, menziona un portaprofumi (alabastron) d'ambra decorato con un giovane che tiene delle lepri, di "stile ionizzante", proveniente da Taranto.
Testimonianze archeologiche nel territorio di Tolve, a cura di G.Tocco, P.Bottini, E.Pica, P.G.Moles, Matera 1982, tav.XXI.1.
Cf. Negroni Catacchio 1978, p.184.
Cf. Negroni Catacchio 1978.
Cf. Negroni Catacchio 1978, p.173.
Queste ultime, all'epoca in cui si datano le ambre rinvenutevi, erano più osche che greche.
Causey-Frel, pp.19, 21, 65 ss., 85 ss., 98 ss.
Si noti che per le teste di ariete e di leone in ambra i migliori confronti vengono da esemplari in oro rinvenuti a Cipro: F.H.Marshall, British Museum, Dept. of Antiquities. Catalogue of the Jewellery, Greek, Etruscan and Roman, London 1970, nr.2023; 2047 (V secolo a.C.).  È possibile dunque pensare a influssi in Italia dovuti a maestri ionici che avevano elaborato schemi iconografici orientali.
Servio, Commento a Eneide XI.271 (secondo la lettura di alcuni codici).
Monili in ambra sono presenti anche nelle sepolture tarantine della prima metà del VI secolo: F.G.Lo Porto, in "ASAA" 37-38, 1959-60, p.134, fig.110 c.
Cf. nota 474.
Cf. P.Wuilleumier, Tarente des origines à la conquète romaine, Paris 1939, pp.335-369.  La maggior parte della gioielleria tarantina proviene da centri anellenici come Armento, Ruvo, Canosa (siti da dove provengono anche le ambre intagliate), Gnathia.  Il Wuilleumier, p.367, ha sottolineato come certi orefici di scuola tarantina fossero poco esperti di lingua greca, come provano le iscrizioni (forse dunque non erano greci).  La gran parte dell'oreficeria tarantina a noi nota spetta al IV-III secolo, mentre si conosce una collana con pendenti aurei a testa femminile, da Ruvo, di pieno VI secolo: cf. C.Belli, Il tesoro di Taras, Milano-Roma 1971, pp.160 e 189.
De La Genière, Ambre intagliate, pp.87-88.  Si noti però che le due testine femminili da Spina provano che dalle stesse officine uscivano sia testine con acconciatura a tutulo sia testine con acconciatura raccolta dietro la nuca, in una foggia più conforme alla moda greca.
Cf. P.J.Riis, Some Campanian Types of Heads, in From the Collections of the Ny Carlsberg Glyptotek, II, København 1938, pp.140 ss. (part.fig.3-4); Id., Etruscan Types of Heads, København 1981, cap.II, pp.18-24 (Capua); kouros bronzeo da Falterona (al Louvre): Giglioli, L'arte etrusca, tav.CXXIII.2; placchetta terminale di ansa di oinochoe da Populonia: A.Minto, Populonia, Firenze 1943, p.184 e tav.XLVIII.7; bulla aurea a testa di sileno da Populonia: o.c., p.182, tav.XLVII; pseudo-scarabeo etrusco con figura di Dioniso: P.Zazoff, Etruskische Skarabäen, Mainz 1968, nr.18 (il Bottini, o.c., valorizza anche i confronti con i nr.19-20, che sono del Maestro di Dedalo e Icaro); pendente aureo a testa di Acheloo da Praeneste: Cristofani-Martelli, L'oro degli Etruschi, nr.162.
Applique bronzea a testa di satiro dalla Certosa: Zannoni, tav.LXXX.5; testine bronzee del Museo Archeologico di Bologna: E.Richardson, Etruscan votive Bronzes, Mainz 1983, p.147, fig.325-326; p.332 e fig.799; statuetta bronzea femminile di probabile produzione adriese: M.Tombolani, in Gli Etruschi a nord del Po, a cura di R.De Marinis, II, Mantova 1987, p.105, fig.256.
Per altre ipotesi, avanzate in passato [relative alla Iapigia, secondo Helbig ("Bullettino dell'Istituto di Corrispondenza Archeologica" 48, 1877, pp.13-14); al Piceno, per Pollak (Pièces de choix Stroganoff, p.79) e Pesce (in EAA, I, s.v.ambra, pp.313-5, il quale pensa ad artisti ionici operanti nel Piceno); all'Asia Minore, per Albizzati (in "Rassegna di Arte Antica e Moderna" Milano 1919, pp.183 ss.) e Sestieri (in "Arch.Class. 4, 1952, pp.14 ss.)] cf. Strong, p.27 (anche per P.Orlandini, in Genti non greche nella Magna Grecia, Atti XI Conv.Magna Grecia, Napoli 1972, pp.286 ss. e in Popoli e civiltà dell'Italia antica, VII, Roma 1978, pp.256-257, si tratta di prodotti greci).  In tutte queste teorie c'è qualche elemento valido, ma è necessario articolare lo studio delle produzioni entro vari ambiti e varie cronologie.
Strong, p.31 (che per le ambre di Bologna e del Piceno pensa ad imitazioni locali); J.de La Genière, A propos du Catalogue, p.304, esprime riserve in margine a questa ipotesi, in base al fatto che le ambre trovate in Campania sono, per lo più, di qualità scadente ("tipo Roscigno").  Recentemente A.Bottini, Ambre a protome umana dal Melfese, in "BdA" 41, 1987, pp.11-12, ha riproposto l'ipotesi campana, con particolare riferimento a Capua etrusca.
Eccezion fatta per una tartaruga in ambra da Capua: O.Gerhard, in "Bullettino degli Annali dell'Ist.di Corrispondenza Archeologica" 1, 1829, p.188.  Dalla Campania provengono maschere fittili etrusche (Riis, Some Campanian..., cit., p.149 e 151, fig.8-17) nelle quali però la resa degli occhi non corrisponde a quella delle ambre dai grandi occhi.
Negroni Catacchio 1989, p.693 e 696.
Negroni Catacchio 1978, p.198; Ead., 1989, p.662.  Su Bologna come centro di smistamento dell'ambra verso i mercati etruschi settentrionali: N.Negroni Catacchio, Le vie dell'ambra. I passi alpini orientali e l'alto Adriatico, in "AAAd" 9, 1976, pp.41 e 43; B.Bouloumié, Remarques sur la diffusion d'objects grecs et étrusques en Europe centrale et nord-occidentale, in "Savaria" 16, 1982, p.187.
La Negroni Catacchio 1989, p.679, attribuisce le teste di ariete a produzioni etrusco-padane.
Sui materiali etruschi importati dalle genti indigene dell'Italia meridionale, soprattutto nel VI e V secolo, cf. M.Tagliente, Mondo etrusco-campano e mondo indigeno dell'Italia meridionale, in Magna Grecia. Lo sviluppo politico, sociale ed economico, Milano 1987, pp.135-150 (cf. in particolare, a p.150, la collana aurea etrusca con teste sileniche, di V secolo, rinvenuta a Ruvo).
La statuetta d'avorio menzionata a p.109, n.353, potrebbe costituire un'eccezione, la quale, peraltro, non si collega alle possibili produzioni di ambre padane.
Cf. le teste di satiro da Praeneste.
De La Genière, Ambre intagliate, p.84; Bottini, o.c., p.3: “senza soffermarsi sul problema dell'ancora mal certa suddivisione in ateliers  (impossibile da definirsi con esattezza sulla base di una documentazione ancora tanto ristretta), va così sottolineata la comune partecipazione di tutti questi pezzi, inclusi beninteso anche i restanti esemplari melfitani, ad un'unica temperie culturale, ad un'unica, ristretta attività di intagliatori svoltasi attorno alla fine del VI secolo e nei primi decenni del successivo, sostenuta da una committenza elevata, desiderosa di "beni di prestigio"”.
Catalogo della mostra Civiltà arcaica dei Sabini nella valle del Tevere, Roma 1973, p.77; sullo scavo: P.Santoro, in "NS" 1977, pp.211 ss., part. p.276, nr.15 (cf. la collana con elementi a bulla: p.272).
Strong, p.28; Negroni Catacchio 1978, p.175.  Naturalmente tale giudizio deve tenere conto del fatto che circa dalla metà del VI secolo a.C. i corredi funerari laziali ed etruschi tendono a diventare più poveri, similmente a quanto avveniva presso molte città greche per effetto di leggi restrittive del lusso funerario (cf. G.Colonna, in "PP" 32, 1977, pp.136 ss.).  Questo fatto sicuramente incide sul quadro che ci siamo creati circa l'interesse per l'ambra in Italia e in Grecia.
Nel III secolo si hanno pochissime attestazioni di ambra in Italia; per le ambre scolpite è da segnalare solamente, per il III secolo, la produzione di orecchini etruschi in oro con testa di negro in ambra: F.Roncalli, in Rasenna, Milano 1986, fig.618 (due esemplari al museo di Villa Giulia, a Roma); G.Q.Giglioli, L'arte etrusca, Milano 1935, tav.CCCLXXVII.6-7 (altri due, da Vulci, ai Musei Vaticani); R.Cateni, in Cristofani-Martelli, L'oro degli Etruschi, nr.255-256 (tre esemplari al Museo di Volterra, di cui uno di sicuro proveniente dalla zona di Volterra; qui: tav.VIII.18); A.De Ridder, Musée National du Louvre. Catalogue sommaire des bijoux antiques, Paris 1924, nr.176-182 (esemplari senza provenienza); G.Cultrera, in "NS" 1916, p.15, fig.16; cf.G.Becatti, Oreficerie antiche, Roma 1955, nr.406, tav.107 (una coppia da Bettona, nell'Umbria; qui: fig.85); A.Greifenhagen, Schmuck-arbeiten in Edelmetal, I, Berlin 1970, p.79 e tav.74.5 (esemplare da Orvieto conservato a Berlino); L.Breglia, Le oreficerie del Museo di Taranto, Bari 1939, pp.20-1, fig.12 (una coppia da Taranto).  Cf. anche l'anello digitale da Teano (ca.fine IV sec.): E.Gabrici, in "MAL" 20, 1910, c.134.
Cf. N.Negroni Catacchio, La problematica dell'ambra nella protostoria italiana. Le ambre intagliate delle culture protostoriche dell'area lombardo-veneta-tridentina, in "Memorie del Museo Civico di Storia Naturale di Verona" 18, 1970, pp.319 ss.; G.de Fogolari, Presenza di oggetti d'ambra nel Veneto, in Studi e ricerche sulla problematica dell'ambra, I, Roma 1975, pp.247-251; su S.Lucia di Tolmino (in Jugoslavia): C.Marchesetti, Scavi nella necropoli di S.Lucia presso Tolmino, Trieste 1893, p.278.
N.Negroni Catacchio, La frequentazione dei passi alpini del S.Bernardino e dello Spluga in rapporto al divenire della civiltà di Golasecca, in La comunità alpina nell'antichità, "Atti CeSDIR" 7, 1975-76, pp.447 ss.  Sui materiali della cultura di Golasecca ritrovati nell'Europa centrale cf. L.Pauli, in "Hamburger Beiträge zur Archäologie" 1, 1971, pp.23 ss.  Sugli scambi con gli Etruschi cf. AA.VV., Gli Etruschi a nord del Po, passim.
Giustamente la de La Genière, A propos du Catalogue, p.302, ha paragonato le figure di animali con gambe ripiegate sotto il corpo con un Acheloo in bronzo del museo di Bari.  Al British Museum è conservata anche una testa frammentaria di toro, da Armento: Strong, nr.79.
Cf. Causey-Frel, pp.125-131.
Cf.G.Cressedi - G.Colonna, in EAA, III, s.v.Eos, pp.353-4; F.Coarelli, Il Foro Boario, Roma 1988, pp.244-253, 328-363; R.Bloch - N.Minot, in LIMC, III.1, s.v.Eos-Thesan, pp.789 ss.  
Scolio a Germanico, p.103 Breysig; Pausania I.3.1.
Cf. Santuari d'Etruria, a cura di G.Colonna, Milano 1985, pp.127-141, ove bibliografia.
Cf. N.Spivey, Il pittore di Micali, in Un artista etrusco e il suo mondo. Il Pittore di Micali, Roma 1988, pp.15-19 (che le definisce "creature liminari").
Cf.J.Déchelette, Manuel d'Archéologie préhistorique, celtique et gallo-romaine, IV, Paris 1927, pp.833-836.
Si tratta di una precisazione erudita, che Nonno doveva avere desunto dalla tradizione, e perciò non vi vedrei un riferimento alla bipartizione fra Celti dell'Asia Minore (i Galati) e Celti dell'Europa occidentale.  Si tratta di una collocazione generica, che potrebbe includere anche i Galli dell'Italia settentrionale.
Scolio a Dionisio Periegeta 288
S.v. Elektros.
Cf., per es., Scolio a Euripide, Ippolito 733 e 736, p.91 Schwartz; Scolio ad Arato 355.
Orazione 79.287 f; cf. Prisciano, Periegesi 280.
Cf. F.Bénoit, in "Lettres d'Humanité" 8, 1949, pp.136 ss.; E.Culasso Gastaldi, in I tragici greci e l'Occidente, a cura di L.Braccesi, Bologna 1979, p.54; Pokorny, Eridanos und Rhodanos, in Mélanges E.Boisacq, II, Bruxelles 1938, pp.193 ss.
Lo Scolio ad Apollonio Rodio IV.611 ribadisce che questa storia era raccontata dai Celti, e che Apollo era stato punito per l'uccisione di Asclepio e dei Ciclopi.
Infatti è attestata in Apollonio Rodio.
Nel I secolo a.C., Posidonio di Apamea (87, F 103 Jacoby) localizzava gli Iperborei nei paesi alpini dell'Italia.
M.Montagna Pasquinucci, Le ambre "romane" di età imperiale: problematica e area di diffusione, in Studi e ricerche sulla problematica dell'ambra, I, Roma 1975, pp.259 ss.
Inv. 14701.  Sono grato alla dr.Vanni e al dr.Tondo per avermi concesso di studiare e di pubblicare questo reperto.
Cf. i ritratti romani di sacerdoti isiaci con testa calva: B.Schweitzer, Die Bildniskunst der römischen Republik, Leipzig-Weimar 1948, pp.76-7; la piccola scultura in calcite del British Museum: M.L.Vollenweider, Die Porträtgemmen der römischen Republik, Mainz am Rhein 1972, tav.66.4-7; per il tipo di gemma da incastonare cf. il cammeo in ametista Vollenweider, Die Steinschneidekunst und ihre Künstler in spätrepublikanischer und augusteischer Zeit, Baden Baden 1966, tav.7.5.

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L'ambra e l'Eridano

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Parte prima. Mitologia

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Parte seconda. Storia e archeologia

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Parte seconda. Storia e archeologia

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Parte seconda. Storia e archeologia